Psicologia
Senza più io né mio. La mistica di Margherita Porete
di Giuliana Speranza
Nel giugno 1310, a Parigi davanti a una folla commossa, viene messa al rogo Margherita Porete per aver scritto un libro eretico, Lo specchio delle anime semplici, il più antico testo mistico francese. Un autentico capolavoro nell’ambito della spiritualità medioevale d’orientamento cristiano, accostabile solo ai Sermoni di Meister Eckhart o alla Nube della non conoscenza, ad opera d’un anonimo autore inglese. E giusto da pochi giorni è stato pubblicato un saggio di Francesco Roat che compara la mistica di questa antica ma sempre attuale autrice anticonformista con quella del grande mistico tedesco, che venne certamente influenzato dalla lettura dello Specchio.
È all’insegna dell’umiltà, quale atteggiamento non solo opportuno ma imprescindibile per accostarsi alla dimensione spirituale, che si apre il libro di Margherita. L’umiltà infatti ha da vigilare su un sapere mai assoluto ovvero slegato dalla contingenza di quanto accade e dagli strumenti conoscitivi utilizzati. Perciò va ridimensionato il ruolo ipertrofico della “Ragione” che la Porete ritiene subordinata sia all’“Amore” che alla “Fede”, la quale non deve ridursi a mera credenza ma ad un fiducioso affidarsi a Dio o, se vogliamo, all’esistenza e somiglia molto allo stoico “amor fati”: l’accettazione piena della realtà, qualunque cosa accada.
Non a caso Anima, Ragione e Amore sono i personaggi base di quello che Roat chiama il teatro poretiano, dove tali tre attori discutono vivacemente intorno a tutta una serie di temi: etici, religiosi, comportamentali. È evidente come dietro la figura dell’Anima si celi Margherita, che subito “prende congedo dalle Virtù”, intese come dettami moralistici, regole, norme calate dall’alto. Però questa netta presa di distanza si rivela non tanto un rifiuto, quanto un superamento della sudditanza ad esse o di soggezione all’obbligo di perseguirle. Elemento essenziale di questa concezione mistica è il distacco – riscontabile pure in Eckhart, nota Roat -, così Margherita ha l’ardire di scrivere che l’anima avvero libera: “non fa conto né di disonore o d’onore, né di povertà o di ricchezza, né di agio o di disagio, né d’amore o di odio, né d’inferno o di paradiso”.
Inoltre non c’è forma di attaccamento nell’anima cosiddetta affrancata, che “è divenuta niente”, cioè una vacuità, ma spiritualmente colma, ossia un niente che si fa tutto. Per la dialettica mistica, sottolinea ancora Roat, i contrari non risultano contrapposti bensì affiancati e legati in fratellanza, per porsi come facce d’una stessa medaglia. Si ripropone quindi per la Porete l’indicazione evangelica del: “sia fatta la tua volontà”, consistente nella resa o nell’affidamento totale a Dio. Le anime affrancate hanno poi una totale mancanza di pretese conoscitive, sia intellettualistiche sia introspettivistiche, accogliendo la realtà mediante un atteggiamento equilibrato e ispirato ad una sana naturalità del vivere priva di nevrosi o sensi di colpa e vicina a quella del santo taoista che pratica il wu wèi, ovvero la regola dell’agire senza uno scopo intenzionale; il che significa attenersi ad una condotta che oggi potremmo chiamare ecologica.
Morendo egocentricamente a seguito della mors mystica (morte mistica) quale thanatos proairetikos (morte dell’intenzionalità), una tale anima diviene irrintracciabile; in un certo senso è scomparsa e “non la si può trovare”, leggiamo nello Specchio. Però secondo l’opinione di Roat non si tratta affatto di misantropia ma di sapienza spirituale. Il mistico prova indubbiamente emozioni, si rapporta in modo cordiale con il prossimo, anzi lo ama seguendo il Cristo, ma non dipende dalla relazione con gli altri, non cerca l’affetto altrui, non richiede, attende o pretende alcuna cosa, fidando solo in Dio. Sin dai tempi biblici la domanda “rispondimi”, rivolta a Yahweh, è invano ripetuta ossessivamente, ma a chi la interroghi con la pretesa di venire esaudito, la Divinità non risponde. D’altronde, come afferma Bonhoeffer, Dio non è un “tappabuchi” (Lückenbüßer), per turare la falla del nostro bisogno di soccorso. Mentre il considerarsi “niente” ovvero assai poca cosa o appunto nulla se non in rapporto con gli altri e l’altro da sé, testimonia il non considerarsi una monade isolata e da privilegiare, bensì ritenersi solo una creatura in relazione e comunione con tutti e tutto.
Le anime “affrancate” della Porete dimorano semplicemente nell’essere, in uno stato di solo apparente inferiorità. Sono vuote di ambizioni, avversioni, volontà e velleità, ma spiritualmente colme, benestanti giusto poiché povere per lo spirito (pauperes spiritu). E godono della massima serenità riguardo a loro e a qualsivoglia condizione in cui abbiano a trovarsi o con cui abbiano a che fare. Tale gioiosa quiete è legata anche alla loro indipendenza, non essendo soggette ad alcuno né dovendo dipendere da alcuna cosa. Quantunque simili persone siano, putacaso, ridotte in schiavitù o abbiano perso la libertà individuale perché ridotte in carcere, come Margherita, esse rimangono interiormente libere e denotate da una inalienabile signoria spirituale.
Gli interrogativi metafisici, quelli intorno a Dio, che i teologi e molti filosofi si pongono, non solo non appartengono ai mistici, ma loro (come il Buddha) non tentano neppure di rispondere a tali questioni se non appena velatamente mediante simboli, immagini, metafore. Spogliandosi di ogni peculiarità (l’eigenschaft di Meister Eckhart) possono giungere a una dimensione unitaria, dove scompare ogni alterità tra io e Dio. Allora non vi è più dualismo e cessa quella che potremmo chiamare l’opera del diavolo (diabolos), di colui che separa, disunisce e inganna, generando al posto della concordia discordia, in luogo dell’omogeneità disomogeneità. Allora scompare ogni divisione tra piacere e dispiacere. Persino tra bene e male, essendoci ormai soltanto il primo, poiché per i “puri di cuore” il secondo è inesistente.
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Francesco Roat, Senza più io né mio. La mistica di Margherita Porete, Ed. Le Lettere, 2024, pp. 165, euro 18,00

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