Lo Zibaldone
Luciano Manicardi: “Fragilità”
Definire in che consistano le caratteristiche fondamentali dell’essere umano è impresa che da sempre ha intrigato i filosofi, le cui definizioni tuttavia sono ben lungi dall’essere condivise in modo unanime, tanto è vasto/variegato lo spettro degli ambiti e degli attributi umani. Un tratto però accomuna indubbiamente tutti i viventi, ossia la fragilità. Qualcuno osserverà che detto connotato può riferirsi forse ancor meglio a cose, quali un bicchiere di vetro o una tazzina di porcellana. Verissimo, ma quella umana è una fragilità tutta speciale e soprattutto quasi ininterrotta. Mi spiego meglio. Se avvolgo in un panno e ripongo al sicuro un antico vaso greco, questo ‒ se nessuno lo rompe ‒ rimarrà integro per anni, decenni, forse per secoli. Noi uomini e donne, invece, siamo in un certo qual senso assai più fragili, più esposti a crepe e/o incrinature varie; tanto che in un suo recente saggio Luciano Manicardi si è spinto a sostenere che la fragilità sia la dimensione costitutiva dell’umano.
Vi è un’altra caratteristica dell’esser fragile che distingue dalle cose inanimate il cosiddetto homo sapiens, e cioè che questi: “si può anche spezzare da sé stesso”, ovvero suicidarsi o alienarsi dal mondo, tramite ad esempio droghe deleterie. Per questo, precisa Manicardi, la fragilità non equivale alla vulnerabilità; nel senso che quest’ultima prevede un vulnus: una ferita che proviene da fonte esterna all’individuo vulnerato; mentre la fragilità implica non solo l’eventualità di ricevere una offesa/lesione causata da altri/o, ma pure da una spinta auto-aggressiva. E comunque, per quanto si sia equilibrati, robusti, giovani e sani, non c’è modo di sfuggire a lungo al dover esser fragili. Si pensi solo alla mitica immagine del tallone d’Achille, del punto debole presente in ogni persona, gruppo, società. Per non parlare della “fragilità assoluta del neonato e del bambino”, che mai diverrebbe adulto privo delle cure parentali. O a quella dell’anziano che deve misurarsi con problemi via via maggiormente crescenti più avanza con gli anni, ad onta del fatto che la durata della vita stia aumentando (nei Paesi ricchi).
Persino il nostro ombelico ‒ nota Manicardi ‒, cicatrice indolore della nascita, è cifra: “di una ferita originaria che dice la nostra dipendenza e la nostra fragilità costitutive”. È perciò questione inaggirabile/irresolubile la fragilità? Forse non è tanto essa a costituire il problema maggiore, quanto le risposte che ad essa possiamo (o non riusciamo a) dare. Anzi, si potrebbe aggiungere che ove c’è fragilità /instabilità c’è anche metamorfosi, processo evolutivo, crescita. Dice bene l’autore: “l’evoluzione mostra che sono proprio le fragilità, le imperfezioni e le casualità che consentono ai sistemi, ai viventi e all’uomo stesso di evolvere”. Ma allora il potenziale umano e umanizzante insito nell’esser fragili, la consapevolezza della similarità che tutti ci affratella può servire a promuovere un’etica della fragilità all’insegna della responsabilità e della cura, per dirla con Ricœur. A tale proposito, menzionando il titolo di un altro scritto di Manicardi ‒ Farsi prossimo, farsi umano ‒, possiamo cogliere in questo appello/monito anche la chiave di lettura del presente saggio. La pratica d’una autentica umanizzazione è dunque imparare: “a considerarci ospitati dall’umano”, a mostrarci solleciti con l’altro, con chi ci è appunto prossimo ovvero ‒ etimologicamente ‒ vicinissimo, giusto in quanto essere umano come noi.
Prendersi cura della fragilità vuol dire inoltre (al di là di deplorevoli buonismi/paternalismi) operare affinché in ognuno si sviluppi la resilienza: la capacità non solo di non farsi annichilire o di sopravvivere, ma d’una perenne progettazione dell’esistenza quale inesausta riformulazione di come sia possibile gestire al meglio l’oggi e il domani. Compito davvero cruciale non è quello di opporsi meramente alla fragilità, bensì di imparare a tollerarla, di apprendere a vivere nonostante sofferenze e perdite. Nessuna velleità di superomismo, quindi. Parafrasando Nietzsche: nessuna volontà o velleità di potenza; piuttosto umiltà e riconoscimento dei limiti propri e altrui. Però, al contempo, misurarsi con la fragilità significa pure saper cogliere in ogni congiuntura negativa, in ogni crisi l’occasione per una messa in discussione dello (o per una interrogazione sullo) stile di vita adottato, che spesso è da ripensare/modificare.
In conclusione Manicardi auspica che, approcciando la fragilità, tutti noi si riesca a: “fare di questa debolezza un elemento spiritualmente ricchissimo”; in quanto sin dai tempi preistorici il prendersene cura ha creato momenti e spazi di socializzazione, condivisione, mutuo aiuto, nonché di rapporti amorevoli. Non dimentichiamoci infatti che tra gli umani non esiste solo la dimensione passionale dell’eros, ma anche quella della philia (l’affetto amicale/parentale) e non da ultimo dell’agape: l’amore oblativo e caritatevole, che Cristo ci ha invitato a praticare quale suo insegnamento/comandamento essenziale.
Luciano Manicardi, Fragilità, Qiqajon, 2020, pp. 90. Euro 10,00.
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