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Saggi

A proposito del vivere, e del morire

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di Francesco Roat

“Nell’epoca moderna, la morte, malgrado la continuità apparente dei temi e dei riti, è diventata problematica, e si è furtivamente allontanata dal mondo delle cose più familiari”. Così scriveva nel lontano 1975 il profetico storico francese Philippe Ariès, precisando come, semmai, nella sfera dell’immaginario collettivo la figura della morte si sia venuta a legare alla fruizione dei film horror, solo attraverso il cui tramite noi tolleriamo essa esprima in modo così drammatico la rottura dell’ordine abituale. Diversamente, al di fuori dai confini ben demarcati e rassicuranti della finzione e dei media (nelle cronache in TV la morte è sempre altrui e altrove; è immagine spettacolare, lontana da chi guarda lo schermo e quindi assai poco inquietante), la morte è divenuta l’inaccettabile da rimuovere, quando non si escogitino più o meno irrazionali tentativi di esorcismo per eluderla.

Come ha sottolineato in vari suoi saggi pure la tanatologa Marie de Hennezel, noi nascondiamo la morte quasi fosse una cosa vergognosa e sporca, limitandoci a scorgere in essa lo scandalo insopportabile della messa a nudo della nostra finitudine. Del resto la stessa psicoanalisi non ha forse decretato che il processo cruciale del nostro venir meno non è rappresentabile, lasciando ai filosofi l’onore-onere di conferirgli o meno un senso e finendo con l’interessarsi solamente all’elaborazione del lutto? In un’epoca e in un mondo segnati in modo davvero allarmante da narcisismo, superficialità ed edonismo; in una cultura all’insegna dell’individualismo più sfrenato, dove la morte è sempre e solo dell’altro e soprattutto dove l’exitus altrui deve turbare il meno possibile chi resta, riflettere sul ‒ e riconsiderare il ‒ monito antico: memento mori (ricordati che devi morire) è occasione forse ancora più indispensabile oggi, al tempo del Covid-19, dove i più cercano di pensare il meno possibile all’eventualità della propria fine, ma molti ‒ troppi ‒ sono angustiati anche solo dall’idea di un contagio che possa comportare in breve tempo il decesso.

E giusto Ricordati che devi morire! è il titolo di un attualissimo saggio di Guidalberto Bormolini, inteso a far riflettere i lettori sulla morte, ma: “per poter vivere appieno”. Questo è infatti, secondo l’autore, l’apparente paradosso del memento mori, e cioè che la consapevolezza della nostra ineludibile precarietà ci permette innanzitutto di acquisire una certa resilienza, nonché: “una maggiore capacità di trasformare i traumi e le avversità della vita in occasione di crescita”. Inoltre tener presente la condizione che accomuna tutti gli esseri viventi ci fa disponibili alla compassione (nel senso forte e non pietistico del termine), al rispetto altrui e alla fratellanza. Non da ultimo, altresì, tale coscienza della provvisorietà, vulnerabilità e limitatezza dell’esistenza tende a promuove un’etica della non-violenza, antibellicista e solidarista.

Nell’antichità, a differenza di oggi, i filosofi e i saggi tenevano in grande considerazione la cosiddetta ars moriendi: l’arte di saper accostarsi senza angoscia alla morte ed il saperla considerare non solo negativamente. Se non altro perché ‒ al di là della speranza in opinabili resurrezioni o reincarnazioni ‒ il ricordo costante di essa, in forma di meditazione tranquilla e tranquillizzante, ci consente di raggiungere un’indubbia libertà d’animo. Dice bene Bormolini: tenendo presente che non c’è catena od oppressione d’alcun tipo che non venga sciolta con la morte, meditando su di essa ci si rende conto di “quanto sia ridicolo ciò per cui normalmente ci si affanna”. Ma non solo; tramite questo esercizio ci si affranca dalle ambizioni/aspirazioni vane. In vista di una vita più piena/serena. “È così che si muore al proprio egoismo ‒ scrive ancora l’autore ‒ per accedere all’interiorità della coscienza e all’universalità del pensiero del tutto”.

Per concludere, un’ultima citazione. Non quella di un monaco o di un maestro zen, ma di Steve Jobs, tratta da un discorso fatto nel 2005 ai neolaureati di Stanford e riportato nel libro di Bormolini: “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose ‒ tutte le aspettative d’eternità, tutto l’orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o fallire ‒ semplicemente svaniscono di fronte all’idea della morte, lasciando solo quello che c’è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore”.

Guidalberto Bormolini,

Ricordati che devi morire! Prepararsi alla propria morte,

Edizioni Messaggero Padova, 202

pp. 99, euro 8,50.

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