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Editoriale

Orson Welles e gli extraterrestri

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C’è un telegiornale che giudico fortemente ansiogeno. Va in onda su un canale commerciale. Il suo conduttore, appena compare sul video, ti bombarda, ti stressa e più le notizie sono gravi più lui alza la voce. Il tono è da “senti cosa ti aspetta”, “non hai speranze”, “il presente è tempestoso e nero”, “il futuro è drammatico”. Il suo modo di comunicare, il suo atteggiamento, la sua stessa postura creano nel pubblico insicurezza e alimentano l’incertezza collettiva e le paure alle quali si è particolarmente sensibili in questo periodo di disoccupazione, di lievitazione del costo della vita, di tasse, di spread, di emergenza, insomma di crisi. Questo allarme sulle condizioni dell’economia del Paese non è proprio nuovo, ma è in crescita impetuosa e segue quelli, temporaneamente archiviati, sulla criminalità e sull’immigrazione. E per far crescere l’inquietudine arriva una spruzzatina di terrorismo.

La situazione reale non va certamente né nascosta né negata. Le “minacce” reiterate dai media sono, però, destabilizzanti e fanno aumentare la percezione di insicurezza, che può indurre il pubblico ad atteggiamenti non equilibrati. Pertanto, da sempre, massmediologi e psicologi richiamano l’attenzione sul condizionamento che televisione, radio e in parte giornali “di carta” esercitano sugli ascoltatori e sui lettori. Loro, gli operatori delle news e dei talk, lo definiscono giornalismo moderno. Ma è così? Oppure è soltanto esibizionismo, narcisismo professionale di chi vuol sorprendere, strizzare i sentimenti, scioccare per rafforzare un’informazione altrimenti evanescente o un programma tv o radio insipido? Sensazionalismo per aggiungere appeal all’offerta, per difendere la propria audience e per acquisire l’attenzione del mercato delle news? È una questione che arriva da lontano.

Ricordate la versione radiofonica della Guerra dei mondi realizzata da Orson Welles? Forse è meglio conosciuta come la più grande beffa mediatica di tutti i tempi. Accadde alla vigilia di Halloween del 1938; per la sera del 30 ottobre la Cbs aveva deciso di mandare in onda un radiodramma di fantascienza. A Welles la struttura del programma sembrò insignificante: per renderla più vivace e stuzzicante decise di aggiungere un po’ di peperoncino. Ne fece una trasmissione di musica intervallata da un falso notiziario che annunciava l’invasione degli extraterrestri.

“Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino”. E ancora: “Signore e signori, è la cosa più terribile alla quale abbiamo mai assistito… Aspettate un momento! Qualcuno sta cercando di affacciarsi alla sommità… qualcuno… o qualcosa. Nell’oscurità vedo scintillare due dischi luminosi… sono occhi? Potrebbe essere un volto. Potrebbe essere… Mio Dio, dall’ombra sta uscendo qualcosa di grigio che si contorce… E poi un altro e un altro ancora”. Questo l’annuncio che, letto con un tono concitato,, suscitò reazioni non previste e inimmaginabili, gettando nel terrore milioni di ascoltatori degli Usa.

Fu da quei momenti che si capì la smisurata forza comunicativa dei media. Da qui la necessità di gestirli con attenzione e prudenza evitando involontarie, e tantomeno forzate, manipolazioni, salvaguardando il rapporto di fiducia tra pubblico e mezzo. Scongiurando il rischio di causare traumi.

Una notizia mal comunicata e peggio commentata, un’immagine dura inopportunamente sovraesposta possono creare traumi, alimentare la paura, innescare un effetto di emulazione e determinare reazioni e atteggiamenti non equilibrati.

Il bisogno principale di questa nostra società terrorizzata è la sicurezza. C’è un’esigenza di protezione, di certezze, di sentirsi al sicuro. Paul Krugman è convinto che se l’Occidente applicasse la ricetta giusta potremmo essere fuori dalla crisi in diciotto mesi (Fuori dalla crisi, adesso!, Garzanti). C’è necessità di una televisione “pedagogica” che spieghi cosa succede intorno a noi, che svolga di nuovo la vecchia funzione di alfabetizzazione degli italiani: ieri, per insegnar loro a leggere e scrivere; oggi, per suggerirgli come affrontare le insidie della crisi economica. Una televisione che dia ragguagli e valenze che consentano di affrontare il futuro. Una televisione che dialoghi con i giovani, che lottano per guadagnarsi una vita decorosa e che vogliono dare il loro contributo di cambiamento alla società, a loro inibita. E questo può farlo, anzi lo deve, il Servizio pubblico televisivo.

C’è nel Paese un ritorno di attenzione anche verso la televisione generalista. È effetto della crisi economica che cambiando le abitudini degli italiani li riavvicina alla tv e rigenera le potenzialità di questo mezzo. A coloro che nel week end tornano a riaccendere il televisore le emittenti devono presentare format innovativi  adatti al momento che stiamo vivendo, con meno lustrini e con più contenuti.

E la Rai deve distinguersi per innovazione, qualità, buongusto e per un’informazione pluralista che sia specchio fedele della realtà sociale e che rifiuti strategie emotive. Una Rai che ancor più oggi, in questo momento di emergenza, stia dalla parte dei cittadini. Una Rai strumento di unificazione del Paese (Michele Polo, L’informazione che non c’è, Il Mulino). Una Rai bene comune. È una questione di responsabilità. Essere responsabili per essere forti e liberi, da condizionamenti.

 

Giuseppe Marchetti Tricamo

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