Editoriale
L’Editoriale. “Roma”
DI GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO
Sarà stata la guida di New York City della Lonely Planet che stavo spulciando a far capire al mio vicino di sgabello, al Chelsea Market, che arrivavo da fuori. Il Chelsea è un mercato coperto, splendente e alla moda, nel west-end di Manhattan, a pochi passi dal centro, che ha trovato sede in un antico stabile dismesso, un tempo fabbrica dei biscotti Oreo (due stuzzicanti sfere al cacao tenute insieme da crema alla vaniglia). Si può girare e fare acquisti o sedersi e gustare un ottimo pranzo di pesce fresco di giornata, oppure una zuppa calda, se il clima la consiglia. Da dove viene? mi chiese appena capì che poteva inserirsi senza infastidirmi. Dall’Italia, risposi. Sì, dall’Italia l’avevo capito, ma da quale città? Da Roma. Oh, Roma? Si illuminò in viso, si presentò. Bella, la città eterna, la città di Cesare, ma anche di Nerone. Roma caput mundi. Un tutt’uno con la storia. E sì, Henry, un nostro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, diceva: “Essere nati e vivere in Italia è un dono: a Roma è un privilegio”. Sì, uno straordinario privilegio. Anche se a Roma si alternano ancora oggi Cesari e Neroni, periodi esaltanti e momenti difficili. E poiché i panni sporchi si lavano in famiglia con Henry non andai oltre.
Tra noi però possiamo dirlo. È in corso una gara incalzante tra amministrazione cittadina e romani per contendersi il primato di devastatori della città e della sua immagine. E se esiste ancora qualcuno di buona volontà cosa fa? Sta a guardare. Esagero? Mi farebbe piacere essere smentito.
“Roma, come stai?”, hanno titolato un loro evento i docenti della facoltà di architettura della Sapienza. Cosa avrà risposto la città? Certamente che è stressata, depressa, in piena sindrome di abbandono e soprattutto che lei, l’Urbs universalis, non ha bisogno di altre costruzioni, di altre agghiaccianti periferie che strozzano la città, consumano suolo e aggrediscono l’ambiente.
È sufficiente guardarsi intorno per rendersi conto delle condizioni reali della capitale. Si gira per strade sporche e puzzolenti, piene di buche, prive di strisce pedonali e senza vigili, aiuole con erbacce secche e bottiglie avanzi di movida (anche in via Veneto, la strada di Flaiano, di Fellini e della Dolce vita), si percorre il lungotevere trascurato mentre giù scorre il fiume non più biondo, dagli argini e dalle anse rifugi di clochard e di derelitti che vi dispiegano l’odissea della loro vita (Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie). Sull’Appia antica, dove vengono violati i vincoli fissati dal ministero per i Beni culturali, ci si può imbattere in sfregi al patrimonio archeologico. In centro lo sguardo può scivolare su una terrazza abusiva che intacca l’armonia dei tetti. Al Pincio si può incappare nel busto vandalizzato di un Grande d’Italia. Anche il rumore è un’emergenza, dalla periferia al Corso, dove gli artisti di strada suonano in playback a decibel potenziati. Dovunque si coglie il contrasto tra la maestosità delle antiche vestigia e la decadenza della Roma odierna, tra decoro e degrado, tra memorie felliniane e reminiscenze pasoliniane. Ma tutto questo, a Henry, non l’ho detto.
E il Campidoglio, in mano ad amministratori che non riescono a completare un giro di giostra, nonostante i ventitremila dipendenti e il centinaio di nuovi collaboratori, è come Le château des Pyrénées di René Magritte: un asteroide cosmico che se ne sta sospeso sulle onde dell’oceano agitato.
Sono veramente molto lontani i tempi di Ernesto Nathan, che fu sindaco nei primi anni del Novecento. Ci si domanderà se abbia senso parlarne oggi. Sono certo di sì. La memoria, la storia possono aiutarci a misurare il cambiamento e a progettare l’avvenire. C’è allora da chiedersi che città fosse la Roma di Nathan. Fu una città: moderna, laica, efficiente, onesta, dove ebbero ampio spazio iniziative sociali e culturali e momenti di confronto democratico (Nadia Ciani, Da Mazzini al Campidoglio, Ediesse). Sì, certo, Nathan fu un sindaco anomalo. Lo si ricorda per la frase “non c’è trippa per gatti” che annotò in fondo al bilancio comunale, dopo aver depennato la voce “frattaglie per i gatti” specificando che i felini avrebbero dovuto sfamarsi dando la caccia ai roditori del Campidoglio. Ma il sindaco Nathan merita di essere celebrato per aver incrementato l’edilizia scolastica (istituì gli asili comunali), per la valorizzazione del patrimonio artistico-culturale (acquistò il palazzo di Valle Giulia per farne la Galleria d’arte contemporanea), per i servizi pubblici (municipalizzò luce, gas, acqua e volle la centrale del latte, il mattatoio, i mercati generali, l’acquario), per i trasporti pubblici (creò l’Autonoma Tranvie Municipali), per il piano regolatore cittadino, per il primo piano di edilizia economica e popolare (Testaccio, San Saba, Prati). Non fece tutto da solo, ebbe collaboratori capaci che si chiamavano Maria Montessori, Giovanni Montemartini, Sibilla Aleramo, Edmondo Sanjust di Teulada. Nel rispetto dell’alternanza Cesare/Nerone, dopo Nathan arrivò Prospero Colonna, e la speculazione edilizia celebrò i propri trionfi.
Cosa possiamo fare noi cittadini per superare l’opacità di questo momento? Possiamo alzare il tono della nostra indignazione. Possiamo trasformare la rassegnazione in voglia di cambiare. Hanno cominciato a farlo alcuni scrittori, intellettuali, attori. Pochi. È auspicabile che altri se ne aggiungano.
(Leggere:tutti 116, novembre 2017)

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