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Editoriale

L’editoriale. Ricordare per Raccontare (settembre 2016)

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DI GIUSEPPE MARCHETTI TRICAMO

La nostra vita è quella che ricordiamo, l’altra, la parte che la memoria ha dimenticato, sembra non appartenerci più. Sì, l’abbiamo vissuta, ma non è più nostra. Ci riguarda se ci ha lasciato ricordi, emozioni, esperienza, sapere, conoscenza. Questa suggestione ci precipita addosso in una sera d’estate alla Basilica di Massenzio, a Roma, ascoltando nel corso di Letterature, Teju Cole arrivato da Brooklyn, New York, dove lavora al New York Times Magazine. È stato preceduto dal suo libro Punto d’ombra (Contrasto), un racconto fatto di immagini e di parole. Con quelle istantanee, con quei click, Cole ha fissato momenti nella sua memoria personale in connessione con quella collettiva. “La memoria”, sostiene Cole, “è qualcosa di unico che ci rende uguale agli altri”. Ma anche assolutamente diversi. Ed è lo stesso Cole a dire che “la memoria è personale, variabile, e strettamente associata a una verità che è molto più profonda dei fatti nudi e crudi” (la Repubblica, 22 giugno 2016). Talvolta, il ricordo procura una sofferenza così forte da generare l’incapacità di richiamare momenti che disconosciamo come nostri.

Concordiamo, forse un po’ plagiati dalla lettura delle sue opere, con Gabriel García Márquez (Vivere per raccontarla, Mondadori) quando avvalora la tesi che “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. La memoria aiuta a essere e a illuminare la realtà evitandoci di rifugiarci nell’immaginario per chiedere ospitalità alla Macondo di Gabo, luogo esotico e irreale di quel capolavoro che è Cent’anni di solitudine (Mondadori). Ma certamente ci sarete stati anche voi a Macondo, dove Aureliano Buendía concepì la formula per difendere gli abitanti dall’evasione della memoria: “in tutte le case erano stati scritti segni convenzionali per ricordare gli oggetti e i sentimenti”. Anche riguardo alla vacca c’era un cartello di istruzioni: “bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e farne il caffelatte”. Ma era, scrive García Márquez, realtà sdrucciolosa, catturata momentaneamente dalle parole.

Siamo d’accordo con il barcelonés Carlos Ruiz Zafón: “meno ricordiamo meno siamo”. Senza ricordi si rischia di non vivere pienamente. Lo prova, dolorosamente, il protagonista di un racconto di Gesualdo Bufalino (L’uomo invaso, Bompiani): è solo, ha perso la memoria e cerca di rubarla agli altri per conquistarsi un’identità.

“Ricostruire una vita significa provare a sciogliere la rete di fili sottili che nel tempo s’intrecciano tra loro fino ad aggrovigliarsi in tanti nodi. Oppure significa sciogliere quei fili per poi riavvolgerli nel modo appropriato. Ma anche far luce sui vuoti, su quel che poteva essere e non è stato” (Franco Cordelli, Una sostanza sottile, Einaudi). Ma di cosa scriverebbero molti autori senza un soddisfacente ricordo del loro vissuto? Memoria e identità private, storiche, culturali sono assolutamente inscindibili nella scrittura di molti narratori. Cosa sarebbe senza l’autobiografismo isolano e personale la narrativa di Bufalino? Come scrivere senza memoria della Sicilia, di quella terra dov’è “difficile non sentire, anche percorrendo il più impervio dei sentieri, il sospetto di un’orma, fosse quella di un sicano, un normanno o un saraceno” (Massimo Onofri, Passaggio in Sicilia, Giunti)? E nei libri di Vincenzo Consolo, l’autore del Sorriso dell’Ignoto marinaio (Mondadori), non troveremmo l’emigrazione siciliana, i minatori di zolfo, l’aggressione della terra contadina da parte dell’industrializzazione, gli infausti massacri della mafia. Se poi a smarrire la memoria è lo Stato, incapace di impossessarsi del proprio passato e di fare tesoro dell’esperienza trascorsa, il fatto è ancora più grave ed è Leonardo Sciascia, tra gli altri, a denunciarlo nei suoi pamphlet e nei suoi romanzi. Proprio alla collana blu di Sellerio – che porta il nome di “Memoria” – lo scrittore di Racalmuto (che ne aveva suggerito la creazione alla sua amica Elvira) affidò Dalla parte degli infedeli, il libro che l’inaugurò. Una bella storia questa della “Memoria”, dei suoi più di mille titoli, di Sciascia, dell’inventiva grafica di Enzo Sellerio e dello straordinario fiuto di Elvira Sellerio, un’editrice raffinata e tenace anticipatrice di idee. Personaggi, episodi, vicende, intuizioni, fatti grandi e piccoli, li troviamo raccontati da alcuni narratori della casa editrice nel libro La memoria di Elvira (2015), da non perdere.

Una memoria che ritorna con un libro, ma che può riaffacciarsi anche grazie a  una foto, un’immagine televisiva delle Teche, un suono, un incontro, il biglietto di un teatro, di un cinema, di un treno, di un aereo o di un aliscafo saltati fuori dopo anni da una vecchia agenda. Riconquistiamo così la parte di memoria personale che temevamo di aver smarrito. Tutto ricomincia. E tornano ad appartenerci momenti temporaneamente smarriti che adesso custodiremo con scrupolo. E quella collettiva? È un patrimonio da non ignorare, da condividere per poter affrontare il futuro. Un individuo potrà dimenticare, un cittadino mai. E c’è un artista, testimone del nostro tempo, che realizza reportage del vissuto di un’Italia da non scordare. È Gianni Berengo Gardin e le sue foto, che raccontano il nostro Paese, hanno tutti i colori del bianco e nero (Vera fotografia, Contrasto).

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