Musica
David Bowie, il divino alchimista
di Gildo De Stefano
Tra le tante biografie in giro sul Duca Bianco del rock, questa di Dalila Ascoli -al suo esordio nella saggistica musicale- dal titolo “David Bowie – Il divino alchimista” (Arcana Editrice, pagg. 325, €. 18,50), si erge forse per la sua atipicità poiché avulsa da certi stereotipi narrativi delle vite degli artisti. Dal tessuto narrativo si evince come ciò che fa di Bowie una sorta di ‘outsider’ del rock è proprio perché il rock vuole restare arte, che vuole testardamente continuare a raccontare la vita e non il suo simulacro, comincia a seguire strade diverse, si stacca con forza dal suo stesso immaginario, cerca di accantonare la necessità di una tecnologia, dell’elettrificazione degli strumenti. Mentre negli States esso si muoveva in controtendenza, rifiutando la spettacolarità, David Bowie ha cercato di cavalcarlo in maniera alternativa, cercando nuove contaminazioni, avventurandosi in nuovi linguaggi, mettendosi in discussione costantemente dando vita a forme sonore sempre più innovative. Ed è proprio su ciò che l’autrice indaga, su quella che da diversi decenni è stata l’iconografia del pop britannico e la nostra comprensione di ciò che rende sexy la musica e i musicisti, dipese quindi da un fraintendimento di ordine sessuale.
A partire proprio dal Duca Bianco, tale ambiguità è stata consapevole. La conquista di Bowie dei mezzi del proprio significato sessuale è documentata in modo toccante nelle memorie del suo primo manager Kenneth Pitt, un intellettuale dello showbiz che non si cimentò mai con il concetto del pop come arte. Pitt riferì un commento sul suo protetto da parte di un amico: “Con tutti sembrava giocare al gatto col topo. Si trastullava davvero. Affermai allora che sarebbe diventato una stella di prima grandezza o che si sarebbe arricchito nei bordelli omosessuali di Piccadilly”. Dunque lo spettacolo del ragazzo-prostituto divenne consueto, ma gli idoli del pop convenzionale si atteggiavano con l’ombrosa innocenza degli anni ’50.
Tutto sommato una biografia corposa e intrigante questa della Ascoli, che esalta le peculiarità dell’artista londinese, dal ‘camp-style’ -quel dandismo nella cultura di massa, sensibilità ironica, nonché forma sfarzosa di travestitismo psichico- al ‘glam-rock’, consacrato nell’hit “The Rise and Fall of Ziggy Stardust”, dando vita al ‘bowismo’, vera e propria fenomenologia sociale. Gli appassionati del pop britannico hanno sempre amato abbigliarsi come i divi, ma i Bowie boys non si limitavano ad acconciarsi per le loro notti fuori. II bowismo è stato un modo di vivere, lo stile come significato, e nessun altro idolo ha avuto un influsso tanto profondo sui propri fan quanto David Bowie. II suo esempio di autonomia creativa è stato serio e faceto. L’immagine come arte, l’arte come immagine, e i suoi gusti, i se stesso che creava, erano ineccepibilmente periferici: conosceva la letteratura romantica ed era ossessivamente, narcisisticamente sfuggente; Bowie non era sexy come la maggior parte degli idoli pop. La sua voce e il suo corpo erano oggetti estetici, non sensuali; esprimeva sogni concepiti in camere da letto con la divisette, i sogni dei ragazzi con pretese artistiche; vi erano poche ragazze tra i fan di Bowie. Lui rappresentava la cultura giovanile non come edonismo collettivo ma come grazia individuale che denunciava chiunque altro in quanto ottuso.
Un libro quindi originale, educativo e lontano dai cliché barocchi delle biografie rock, che consente di rileggere, con grande suggestione, il Duca Bianco del rock, tuttavia non esente da qualche lacuna editoriale, che si riscontra nell’assenza della Bibliografia, soprattutto per le innumerevoli citazioni che l’autrice riporta laddove forse sarebbe stato opportuno integrare la stessa -se ci fosse stata- anche con un opportuno Indice dei nomi che spesso, proprio nel campo dell’editoria, fa sempre la differenza.
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