Religione
Dal cuore di un maestro Mahāmudrā
Gendün Rinpoche (1918-1997) viene unanimemente ritenuto ‒ quantomeno nell’ambito del buddhismo Mahāyāna ‒ uno tra i maggiori maestri spirituali tibetani del Novecento. Quindi bene ha fatto la Casa Editrice Le lettere a far tradurre e pubblicare le Istruzioni spirituali di questo ancor poco noto Lama, rivolte soprattutto agli occidentali e a quanti intendano accostarsi alla pratica meditativa: via regia per poter giungere, se non proprio all’illuminazione, ad un modo di porsi (nei confronti di sé, degli altri e del mondo): “più libero e più felice”. E ciò non mi sembra certo cosa di poco conto.
Uno dei primi insegnamenti buddhisti ritenuti essenziali da Rinpoche è il cosiddetto non-attaccamento riguardo a tutto quanto: persone, condizioni esistenziali ed oggetti desiderati o posseduti. Nota infatti il nostro Lama che, se siamo: “consapevoli della stabile impermanenza dell’esistenza, l’errata supposizione di possedere la cose in modo permanente e di poterle conservare dalla fugacità si dissolverà”. Si tratta, allora, di operare un distacco (o presa di distanza) salutare da ciò che altrimenti finisce per costituire un legame in grado, appunto, di costringerci in lacci/vincoli opprimenti, rappresentando essi un carcere entro il quale ci imprigioniamo con le nostre stesse mani.
Potremmo anche chiamare insana dipendenza la nostra generale propensione per ogni sorta di attaccamento, in primo luogo all’ego, da noi così idolatrato. Purtroppo, dice bene il maestro tibetano: “dovunque c’è attaccamento egocentrico al transitorio c’è anche la sofferenza”. Ovvero nasce il dispiacere per quello che non abbiamo o avevamo un tempo e l’illusoria speranza che solo avendolo o riavendolo potremmo raggiungere il benessere tanto auspicato. Ma come giungere ad una magnanimità che non tema più perdite, sconfitte e/o sventure di qualsivoglia genere? La ricetta proposta da Rinpoche ‒ al di là della sua specifica professione di fede buddhista ‒ non si rivela essere altro che quella suggerita dai mistici di ogni tempo e luogo; ovvero un fondamentale/fiducioso sì all’esistenza, che gli antichi maestri stoici chiamavano amor fati, o serena accoglienza del destino e della necessità ineludibile. Si giunge dunque alla liberazione/illuminazione anche solo con questa disponibilità d’animo; e perciò: “Imparando a essere sempre più aperti, in tutte la situazioni della vita, le sperimenteremo come benedizioni, accettando tutti gli avvenimenti allo stesso modo, con lo stesso atteggiamento equilibrato, in cui felicità e sofferenza non motiveranno più orgoglio o sconforto, bensì saranno accolti e sentiti come un dono”.
La parte centrale del libro di Lama Gendün Rinpoche è dedicata alle istruzioni del maestro su come meditare. Anche qui, più che di tecniche, si parla dell’atteggiamento da assumere durante la meditazione. Cuore di tale pratica, in effetti ‒ senza soffermarci sulla ottimale/classica postura corporea a gambe incrociate, tenendo la colonna vertebrale ben eretta e gli occhi socchiusi ‒ è ancora e sempre il: “Lasciare andare” ogni schema comportamentale ed ogni proposito; anche quello solo in apparenza encomiabile di meditare al meglio. Si tratti all’inizio di rilassarsi raccogliendo la mente sul respiro, o recitando in continuazione un mantra, oppure mantenendo l’attenzione rivolta ad un punto/oggetto, quello che conta è la consapevolezza/accoglienza del presente. Che poi emergano o meno pensieri ed emozioni di qualsiasi genere durante il tempo che dedichiamo al raccoglimento meditativo, poco importa.
“Dovremmo provare a non avere qualcosa da raggiungere ‒ raccomanda il nostro Lama ‒ e a non sperare che qualcosa di buono debba accadere, solo così la mente si acquieterà e non sarà più sotto sforzo e in tensione”. È quanto ribadiscono da sempre gli insegnamenti tradizionali buddhisti: lasciare che i pensieri o le sensazioni appaiano e scompaiano è l’unica modalità per giungere allo stato liberatorio detto del “non pensare”. Paradossalmente quindi: “La vera meditazione è la non meditazione, in cui non c’è «io so» e neanche nessuna meditazione”. Ne consegue che rimanendo quieti, in silenzio, senza nulla voler ottenere, ci è dato pervenire ad una condizione di non-dualità, dove scompare ogni distinzione fra osservatore e fenomeni osservati, e dove cessano le distinzioni, specie fra le cose ritenute positive e quelle negative, fra assenso e rifiuto, fra realtà interiore ed esteriore. Allora è possibile aprirsi ad una gioia che è ben altro e oltre rispetto alla mera soddisfazione egocentrica e che ‒ assicura il Lama ‒ non scompare nemmeno se ci colpiscono lutti, privazioni o sofferenze d’ogni genere.
Gendün Rinpoche
Istruzioni spirituali. Dal cuore di un maestro Mahāmudrā
Le lettere, 2021
pp. 234, euro 25,90
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