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Antonio Manzini a Viareggio al “Fuori Corso-Generation”

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Nella sua personale classifica delle situazioni da evitare, il tour delle presentazioni dei libri, firmacopie in primis, mantengono una sorta di pole position, ma quando poi si trova davanti al suo pubblico, con il quale condivide l’avventura cartacea e televisiva di Rocco Schiavone, Antonio Manzini non si risparmia.
“Ad un certo punto hanno pensato che il nostro fosse un lavoro troppo triste – butta lì scherzando – sempre chiusi in casa davanti ad un computer e si sono detti: ma facciamoli uscire un po’ questi poveri scrittori, facciamoli prendere un po’ d’aria, e si sono inventati gli incontri, i festival di letteratura. Con un amico ne abbiamo contati 321 in un anno in Italia, quasi uno al giorno! Però d’altra parte è anche bello vedere che ci sono persone che hanno voglia d’incontrarsi e parlare di libri!”
La battuta, il cambio di registro, la ricerca di complicità con l’uditorio che sono nelle sue corde di attore, oltre che di sceneggiatore e scrittore, attivano un cortocircuito di intese e risate. Così è stato anche il 22 febbraio,sabato pomeriggio, alla Gamc (Galleria d’arte moderna e contemporanea) di Viareggio durante l’incontro “Fuori Corso-Generation” organizzato dalla Fondazione Carnevale e condotto da Giampaolo Simi, lo scrittore sceneggiatore viareggino che con Manzini milita nella squadra dei giallisti della scuderia Sellerio.
Due fuoriclasse, amici prima che colleghi, con un tema su cui riflettere: l’eredità dei padri della commedia all’italiana e del giallo. Tradotto significa: Mario Monicelli e Andrea Camilleri. Ma anche presentare l’ultimo “nato” in casa Manzini, il romanzo “Ah l’amore, l’amore” altro capitolo dell’avventura del vicequestore Schiavone, tutta concentrata in un unico scenario: l’ospedale di Aosta, dove i lettori avevano lasciato il poliziotto ricoverato dopo un ferimento. Scelta rischiosa quella di racchiudere un intero romanzo in un’unica location, ma non per Manzini. “L’ospedale è un luogo che bene o male tutti frequentiamo, è un luogo di riflessione sulla vita e la morte, di decolli e atterraggi, un po’ come l’aeroporto. Un luogo dove nascono rapporti di odio o di amicizia, quindi un luogo di tensioni e di speranze: una scenografia meravigliosa, una scatola di pastelli con tante sfumature. E anche l’occasione per spezzare una lancia nei confronti della sanità italiana per la quale sono orgoglioso di dire che è una delle migliori nonostante i tagli continui che sono offensivi per i cittadini. Volevo parlare del personale sanitario, medici e infermieri: è grazie a loro se i pazienti tornano a casa”. Un “contenitore” di relazioni che stanno sotto il grande ombrellone dell’amore, da cui il titolo “Ah l’amore, l’amore…”
Ma un altro motivo ha spinto Manzini ad ambientare la sua storia nelle corsie di un nosocomio: “Mi divertiva raccontare Schiavone in ciabatte, che si annoia, che non vuol mangiare i piatti dell’ospedale, che vuol giocare a carte”.
Un personaggio ingombrante quello del vicequestore di Aosta (interpretato sullo schermo da Marco Giallini): “A volte ci amiamo, a volte lo detesto – confessa Manzini – dopo il terzo libro mi trovavo continuamente a chiedermi: “Che cosa farebbe Schiavone di fronte a questo problema a questa situazione. Ora siamo ben oltre: neanche me lo chiedo, lo fa da sé e io gli impongo di stare zitto!!”
Divenuto il suo alter ego ma anche proprietà del pubblico: “La condivisione del personaggio con il grande pubblico dei lettori e poi dei telespettatori è divisione da te – ammette Manzini – e appropriazione da parte di chi legge, tanto più sei è un personaggio seriale. Il nostro maestro comune Andrea Camilleri lo ripeteva sempre “il personaggio che hai creato non è più tuo, è del lettore”. Montalbano docet.
Il ricordo del “padre comune” dei giallisti Sellerio è una finestra che si spalanca su affetti e aneddoti: “Per molto tempo abbiamo portato avanti un gioco tra noi: io dicevo il primo verso di una poesia e lui proseguiva. Le sapeva tutte, anche le più impensabili. Solo una volta si arrese su una lirica dialettale di Zanzotto. Negli ultimi tempi Andrea era cieco allora ogni giorno, come un rito, io gli inviavo su Whatsapp un vocale di una poesia. Non sempre rispondeva ma io sapevo che l’aveva ascoltata. Una volta anche lui me ne ha recitata una, purtroppo cambiando il cellulare l’ho persa, ma l’ho stampata nel cuore”.
Eredità immensa quella di Camilleri: i suoi insegnamenti segnano la rotta: “Era solito ripetere: evita la retorica e ricorda sempre che con quello che Dostoevskij lasciava per strada noi ci scriviamo sei libri”.
Non è necessario esplicitare tutto “nel non detto c’è lo spazio per l’interpretazione del lettore”. E qui sta la bravura del narratore, così come dello sceneggiatore o del regista.
Giampaolo Simi ricorda la lezione di un altro grande maestro del cinema Ettore Scola che era solito dire “la zia in camera sua”. Non la vediamo, non sappiamo che cosa faccia, ma ce la immaginiamo. E da Scola a Monicelli, altro padre della commedia all’italiana, il passo è breve.
“Noi veniamo dalle maschere del teatro romano – spiega Manzini – dai “caratteri” tratteggiati da Goldoni: trasportare queste maschere della tradizione italiana nel cinema è stata l’operazione che Scola e Monicelli hanno fatto nei loro film: dall’ “Armata Brancaleone” al “Sorpasso”, dai “Soliti ignoti” o di Scola in “C’eravamo tanto amati”.
E parlare di maschere a Viareggio è davvero d’obbligo.

Cristina Bulgheri

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