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Filosofia

Antimanuale di crescita personale

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Francesco Roat

 

È dallo scorso secolo che imperversano filosofie, tecniche e manuali all’insegna della crescita personale o del miglioramento di sé ‒ pensiamo solo alla New Age, al training autogeno, alla psicosintesi o alla cosiddetta programmazione neurolinguistica degli anni Settanta ‒; ed anche nel nuovo millennio, grazie soprattutto alla Mindfulness e ad altri analoghi programmi psico-pedagogici, molti tra di noi si sentono spinti a potenziare le proprie prestazioni individuali, seguendo questo o quel metodo di cura/sviluppo che dovrebbe consentirci di vivere meglio ottenendo salute ottimale, resilienza e maggior fiducia in noi stessi. Potremmo anche chiamare tale comportamento una vera e propria moda, che è divenuta altresì una sorta di industria, pure editoriale, con la pubblicazione di innumerevoli guide e vademecum al fine di realizzare performance sempre migliori e/o quantomeno convincenti.

A questo proposito il filosofo belga Laurent de Sutter ‒ in un suo saggio recentemente tradotto in italiano, dal titolo provocatorio de: Per farla finita con se stessi. Antimanuale di crescita personale ‒si/ci interroga su detto dilagante e quasi ossessivo fenomeno dell’auto-miglioramento, iniziando col considerare come, a differenza di quanto accadeva un tempo ‒ ad esempio presso per gli antichi filosofi greci ‒ la epimeleia heautou (cura di sé) non consisteva tanto nell’occuparsi egocentricamente del proprio ombelico (del proprio piccolo io) ma comportava piuttosto il sapersi relazionare con le altre persone, con la polis e persino con il mondo. Tale cura era quindi una sorta di saggia ed autentica economia ‒ parola derivante dal termine oikonomia (amministrazione delle cose domestiche, quindi familiari e comuni: non meramente individuali) ‒, al punto che la responsabilità di un monarca verso i suoi sudditi era considerata un’epimeleia heautou.

Ma la critica di de Sutter si spinge ben oltre la presa di distanza da ogni metodo che si propone il potenziamento/cambiamento del singolo; egli sostiene in modo radicale una tesi che potrebbe essere riassunta nella frase seguente: “Il discorso della cura di sé, lungi dal costituire l’orizzonte di una sorta di padronanza dell’individuo stesso, è l’organizzazione specifica, da parte di ogni individuo, della resa di questa padronanza di fronte a coloro che circoscrivono il valore dei tratti che definiscono il sé ‒ dall’aristocrazia greco-romana ai padroni del lavoro nel capitalismo contemporaneo”. In parole semplici: qualsiasi tecnica rivolta a migliorarsi finisce per risultare una specie di “servizio militare”, un addestramento disciplinare solo rivolto al servizio del potere, costituendo un implicito ed autoritaristico dover-essere.

E non basta. Quanto viene messo in discussione va ancora ben oltre. È lo stesso “io” a venir qui negato quale espressione precipua: quale fondamento di ogni soggetto. Il filosofo belga si rifà a Nietzsche e a Freud, secondo il quale con la psicoanalisi l’uomo viene espropriato di se stesso nel momento in cui si rende conto di non esser più padrone in casa sua, in quanto gestito sia da istanze proibitive/normative super-egoiche, sia dalle richieste profonde e pulsionali dell’Es. Semmai, dice ancora de Sutter, l’io viene ridotto ad un “interfaccia attraverso cui ciò che si dice dell’io e ciò che si dice del suo esterno articolano le loro operazioni, per quanto opposte o persino contraddittorie possano essere”. D’altronde la stessa parola persona, che in latino traduce la parola greca prosopon, significa maschera; ovvero quella teatrale indossata dagli attori in teatro per caratterizzare questo o quel personaggio. Così, come riteneva Luigi Pirandello, noi saremmo al contempo uno, nessuno e centomila, e non è possibile identificarci con questo o quel ruolo che di volta in volta interpretiamo o gli altri pensano costituisca la nostra realtà. Ciò che chiamiamo io muta dunque di continuo, è miraggio incostante, effimero, opinabile.

Così la presa di distanza dalle costrizioni moralistiche, sociali e convenzionali finisce con l’essere la libertà di divenire chiunque, esige il non lasciarsi ridurre alla staticità/prigione di alcun io, equivale a rigettare ogni rigida e fallace identità, contempla l’aprirsi senza tema all’incondizionalità del divenire. A detta dell’autore, solo nella spiritualità orientale ‒ induismo, buddhismo, zen, taoismo ‒ l’attenzione all’ego ed al suo incremento/rafforzamento è considerato un ostacolo o peggio ancora un non-senso, perché è da stolti occuparsi del transeunte e dell’inessenziale. Anzi è opportuno liberarsi del se individuale attraverso la meditazione che ci permette di coglierci come parte del Tutto. Nella prospettiva occidentale, in ogni caso, una mistica modernamente intesa (in stretta analogia con quella antica) dovrebbe privilegiare l’affrancamento dall’ideologia egocentrica, il rifiuto di ideali artificiali e la non pretesa di ottenere una realizzazione che, paradossalmente è forse raggiungibile ‒ come riteneva Meister Eckhart ‒ nella decisione di non voler più raggiungere alcunché. E termino lasciando la parola a de Sutter, che conclude:

“Sì, non vogliamo essere niente ‒ perché preferiamo abbracciare i futuri che si aprono davanti a noi da ogni incontro presentatoci dal caso, per esplorare i mondi ignoti di ciò che non conosciamo, per scoprire, infine, i poteri di ciò di cui non sappiamo ancora die essere capaci”.

Laurent de Sutter, Per farla finita con se stessi. Antimanuale di crescita personale, Edizioni Tlon 2022, pp. 156, euro 16,00

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