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Poesia

Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta

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di Francesco Roat

Senza dubbio quella di Dino Campana (1885-1932) fu insieme una vita oscura e luminosa ‒ come recita il titolo del bel saggio biografico di Gianni Turchetta sullo a dir poco eccentrico poeta toscano ‒ in quanto segnata sì da emarginazione, carcere e follia, ma al contempo felicemente creativa/innovativa nell’ambito poetico-espressivo. Al di là dunque della sua storia personale, fin troppo colma di “disordine e sofferenza”, la sua eredità artistica resta per noi davvero: “dono straordinario”. Vale a dire: d’uno scrittore quello che importa non è tanto la condotta esistenziale quanto l’opera. Soprattutto se si tratta di un personaggio, come Campana, intorno al quale nacquero ‒ prima ancora che morisse ‒ leggende più o meno romantiche all’insegna del poeta folle, e vennero a consolidarsi stereotipi sul binomio genio-sregolatezza che ancora tutt’oggi persistono, nonostante sia chiaro che di pazzi al mondo ce ne sono tanti ma di autentici poeti assai pochi; ovvero che una cosa è il disagio psichico e tutt’altra la creatività.

Dando uno sguardo alla biografia di Campana non è comunque difficile comprendere come mai su un tal bizzarro individuo siano nate quelle che Turchetta chiama “mitologie” o vere e proprie “distorsioni”. L’adolescente Dino, infatti, già a quindici anni è colpito da un grave squilibrio psichico che lo porta a condurre un continuo vagabondaggio e scatena in lui: “accessi d’incontrollabile furore”, a causa dei quali sarà destinato a finire più volte in carcere e in istituti psichiatrici. Una sola, durata qualche mese appena, l’unica parentesi felice d’una vita così tormentata, ovvero la relazione erotico-sentimentale con la poetessa Sibilla Aleramo, la quale sarà tuttavia ben presto costretta ‒ sebbene a malincuore e pur amandolo intensamente ‒ a lasciarlo per via della sua irrefrenabile aggressività. Circa un paio d’anni dopo la fine del rapporto, lo scrittore verrà quindi internato definitivamente in manicomio, dove rimarrà sino alla morte.

Questa la negativa vicenda del matto Campana; altra quella positiva del poeta Campana. In quanto egli riuscì, ad onta della psicosi che lo devastava, a produrre il miracolo di un’opera quale i Canti Orfici, destinata a rimanere testo poetico fra i più significativi della prima metà del secolo scorso. Così non possiamo che essere d’accordo con Turchetta su una questione basilare: se riducessimo il significato della parabola esistenziale di Campana alla mera sofferenza psichica o ad uno squilibrio irrimediabile, noi gli faremmo un grave torto; giacché appunto solo tramite la poesia egli riuscì a opporsi alla follia. Il risultato fu la produzione di versi mirabili che testimoniano: “la tenacia e il coraggio della sua scommessa, vittoriosa, contro il caos”.

Certo, il vagabondo/pazzo Dino venne misconosciuto/deriso dai più, ma il creativo/letterato Campana fu in grado: “grazie a un progetto consapevole, a un gesto intenzionale, e a una padronanza tenace, rigorosa delle strutture formali” a fare “del suo disordine, un ordine, una forma: poesia appunto”. Cosa altro aggiungere se non che sarebbe opportuno smetterla con la storia trita e ritrita del poeta alienato, incompreso e incapace di vivere; come se le persone cosiddette normali invece riuscissero a farlo senza angoscia e come se lo squilibrio abitasse solo i giorni dei malati di mente. Ha ragione da vendere Turchetta, la poesia di Campana: “lungi dall’essere solo manifestazione della sua psiche disturbata, scava in profondità nella psiche di tutti”. Se i suoi componimenti poetici risultano ancora attuali è giusto perché in essi ritroviamo aspetti che ci coinvolgono, ambiti in cui possiamo rispecchiarci, angoli prospettici da cui gettare uno sguardo nel caos e nelle ombre inquietanti della nostra interiorità.

Basta altresì col considerare quella di Canti Orfici soltanto come una poesia/poetica allucinata, elegiaca ed espressione del male di vivere. Nel suo capolavoro Campana ci invita anche ad un’accettazione stoica dell’esistenza, a un quasi mistico amor fati, a comprendere come al mondo la gioia fatalmente conviva con l’infelicità. Cifra della sua poesia è allora, al di là della innegabile/pregevole forza visionaria, l’allusione perenne alla complessità/ambiguità di cui è intessuta la vita. Infine, conclude/convince Turchetta, il pazzo Campana non ci mostra lo smacco che la parola subisce allorquando sfiora il limite della sragione, ma testimonia bensì lo “scacco” che il linguaggio e l’espressività artistica talvolta possono dare “alla follia che da sempre ci insidia”.

Gianni Turchetta,

Vita oscura e luminosa di Dino Campana poeta

Bompiani, 2020,

pp. 268, euro 18,00.

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