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Tutta colpa delle affinità elettive. Intervista a Luca Conti

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Luca Conti: da traduttore di autori di prestigio a direttore di Musica Jazz
Di Federica Rondino

Partiamo dalle origini. Cosa significa fare il traduttore?
Ognuno ha la sua opinione, credo. Per me significa soprattutto trasportare un testo in un’altra lingua cercando di farlo funzionare come nell’originale. Ho sempre visto il mio mestiere un po’ come quello dell’elettricista o, come affermava un grande collega come Vincenzo Mantovani, dell’idraulico.

C’è un autore a cui è più affezionato?
James Crumley in particolare, poi James Sallis ed Elmore Leonard.

C’è stato un autore che ha chiesto lei come traduttore esclusivo?
Tutti quelli che ho avuto il piacere di conoscere di persona sembravano molto contenti di essere tradotti da me. Visto che nessuno di loro leggeva l’italiano, i casi erano due: o si stavano semplicemente mostrando cortesi, oppure avevano ricevuto buoni riscontri sul mio lavoro dagli agenti e dagli editori. Comunque ho sempre creduto che la continuità nel tradurre un autore possa fare una certa differenza in questo mestiere.

Quali sono stati i personaggi da cui è stato più affezionato? Hap e Leonard di Lansdale ad esempio?
Burdon Lane, il protagonista di «Run» di Douglas E. Winter, il primo libro che ho tradotto. Poi i due personaggi di Crumley, ovvero Milo Milodragovitch e C.W. Sughrue e, ovviamente, il Lew Griffin di James Sallis.

Molto del suo lavoro è legato al mondo del noir, casualità o affinità elettiva?
Affinità elettiva. Quello volevo tradurre e quello sono riuscito a fare, per mia fortuna.

Quanto una buona traduzione permette a un libro di avere successo?
Lo ritengo un elemento fondamentale, soprattutto in un genere di relativa nicchia come quello di cui mi occupavo io. I bestseller, ovviamente, si muovono su tutt’altre coordinate, soprattutto di marketing, e in tal caso una traduzione di alto livello non è forse l’aspetto prioritario per l’editore (anche se, di certo, male non fa).

Quale il libro che in assoluto l’ha coinvolta di più?
«The Last Good Kiss» di James Crumley («L’ultimo vero bacio» in italiano): il libro che mi ha spinto a diventare traduttore professionista.

È necessario conoscere la letteratura dell’autore che si va a tradurre?
Per me sì, e mi auguro che sia un’opinione condivisa.

Crede che oggi venga posta meno attenzione alle traduzioni di quanto avveniva un tempo?
Al contrario: negli ultimi vent’anni l’attenzione è aumentata moltissimo, sia da parte degli editori sia da parte dei lettori. Purtroppo una buona traduzione costa, e la pessima situazione dell’editoria italiana non invoglia certo le case editrici, di questi tempi, a investire nelle traduzioni di qualità.

Ora è direttore della rivista Musica Jazz: dalla letteratura alla musica. Come mai?
Sono le due materie di cui mi sono sempre occupato nella mia vita, niente di particolarmente insolito o stravagante. Ho avuto l’opportunità di dirigere una testata storica come Musica Jazz e l’ho colta molto volentieri.

Sulle pagine di Musica Jazz, da redattore, ha sempre trovato il modo di conciliare il mondo della musica e quello della letteratura. Un divertissement o esiste una sottile linea rossa che unisce le due arti?
In molti casi le due arti sono unite, in molti altri no. A me, ovviamente, è sempre interessato il primo aspetto, anche nel caso di autori che amo molto, ma purtroppo non ho tradotto io, come Michael Connelly e George Pelecanos, entrambi grandi appassionati di musica e altrettanto grandi professionisti (Pelecanos, in più, è anche un ottimo scrittore).

Traduce ancora libri?
No, ho smesso. Da un lato per seri motivi di stanchezza, fisica e mentale, dall’altro proprio per l’impossibilità di conciliare le due attività a causa della mancanza di tempo. Finché è durata, è stata una cosa fantastica: ho tradotto gran parte dei libri che, quand’ero un semplice lettore, avrei tanto desiderato tradurre. Quindi posso ritenermi più che soddisfatto di com’è andata.

Quello del traduttore e quello del direttore di una rivista di prestigio sono due mestieri apparentemente molto diversi: riesce a trovare delle affinità?
Ben poche, se mai ve ne sono. La differenza più evidente è che il traduttore lavora in completa solitudine (fin troppa) mentre in un periodico è necessario abituarsi a lavorare con gli altri (fin troppo).

 

Intervista pubblicata sul numero 91 di Leggere:tutti.

 

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