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Sulla vita felice
di Giuliana Speranza
Vari scritti di Agostino d’Ippona (354-430) ‒ indicato pure come sant’Agostino, Padre e dottore della Chiesa ‒ appaiono oltremodo rilevanti non solo per la profondità della sua riflessione in ambito strettamente religioso, ma anche per scoprire come la cultura di carattere cristiano dei primi secoli abbia rielaborato temi filosofico-sapienziali del mondo greco-latino rivificandoli intelligentemente. Una delle prime opere del grande Ipponense, redatta poco tempo dopo la sua conversione, è testimonianza notevole di tale percorso.
Testo giovanile ‒ del quale si consiglia la lettura pure come primo approccio al pensiero di questo Padre della Chiesa ‒, ma già indice d’una precoce maturità spirituale, è il dialogo filosofico De beata vita (Sulla vita felice), piccolo capolavoro il cui titolo ricorda molto da vicino quello di un’altra opera celeberrima, di Seneca (De vita beata), sempre incentrata sul tema di come raggiungere la felicità: tematica affrontata peraltro da molti altri filosofi antichi.
Però Agostino, pur facendo inizialmente suo ‒ onde raggiungere la beatitudo ‒ il classico riferimento alla virtù della moderazione (moderatio-mesotes) quale rimedio ai mali che affliggono l’uomo permettendogli un’esistenza quanto meno serena, si spingerà ben oltre. Infatti nel De beata vita la problematica è appunto la felicità/beatitudine intesa quale l’autentico nutrimento vitale/spirituale dell’anima.
L’Ipponense, constatato come il raggiungimento della felicità sia da sempre desiderio universale dell’uomo, ritiene quindi che essa non consista nel mero soddisfacimento delle proprie brame effimere, ma soltanto in un bene stabile e pieno, che non dipenda né dal potere, né dalla ricchezza, né dalla fortuna volubile. Un tal bene supremo non è altri che Dio.
Ancora: l’infelicità appare qui come stoltezza, il cui opposto è una saggezza vista come la compiutezza dell’anima, ottenibile grazie alla misura (modus). Tuttavia il modus per antonomasia, secondo Agostino, è quello proprio di Dio. Chiaramente egli si rifà a Plotino, per il quale l’Uno (Hen) è: “misura e termine di tutte le cose”; perciò piena sapienza per l’Ipponense è la Sapientia Dei: giusto e soltanto quella di Dio.
Ma è Cristo, a detta di San Paolo, ad essere la “sapienza di Dio” (theou sophian) ed al contempo, secondo il vangelo giovanneo, il Verbo (Logos), il Figlio unigenito di Dio (monoghenous), nonché la “verità” (aletheia). Così la misura in quanto modus: “è da osservare ovunque e da amare ovunque” ‒ conclude Agostino, rivolto agli ospiti del suo simposio ed ai lettori ‒, “se vi sta a cuore il nostro ritorno (reditus) a Dio”. A quel Modus con l’iniziale maiuscola, potremmo dire; o ‒ per utilizzare un’altra metafora ‒ a quella dynamis: letteralmente potenza onde trae origine ogni evento, ogni cosa, ogni esistenza nella sua varia interconnessione e/o metamorfosi.
Il dialogo De beata vita ‒ opera breve ma intensa, nonché leggibile agevolmente da parte del lettore medio ‒ ha conosciuto varie traduzioni. Quella qui proposta, a cura di Francesco Roat, un saggista da sempre interessato alla spiritualità, risulta estremamente puntuale, scorrevole e volta inoltre ad evidenziare tutte le sfumature di un testo latino ‒ così attento alla scelta di vocaboli, metafore ed immagini significative ‒ che il nostro traduttore ha saputo rendere davvero felicemente in italiano.
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