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Spazio, corpo, visioni in Anna Maria Ortese
di Francesco Roat
Il notevole e recente saggio di Lilia Bellucci su Anna Maria Ortese prende l’avvio da tre puntuali termini con cui è possibile riassumere l’esperienza insieme espressiva e biografica di questa grande autrice italiana: marginalità, estraneazione, nomadismo. Ai margini del mondo letterario italiano è sempre stata infatti la Ortese, nonostante i premi conseguiti e le accoglienze editoriali sempre però così faticose, problematiche, tardive (da Adelphi venne sì felicemente riscoperta/rilanciata, ma in tarda età). Anche la platea dei lettori ‒ oggi, per fortuna, molto più vasta di quando lei visse e scrisse ‒ si ampliò molto giusto a partire dalla sua scomparsa; e comunque postumo fu il riconoscimento unanime della critica che soltanto nel nuovo secolo la considerò degna di figurare tra i grandi protagonisti del romanzo novecentesco europeo.
“Sono figlia di nessuno”. Non a caso è questo l’incipit di quello che è, a mio modesto avviso, il capolavoro di questa aliena, appartata e schiva scrittrice, ossia Il porto di Toledo. Il sottoscritto ha avuto il privilegio di un sia pur breve rapporto epistolare con Anna Maria; e lei in una lettera (scritta in età avanzata) gli confessò con dispiacere che il pubblico non aveva ancora compreso/accolto questa sua opera (che alla sua prima uscita vendette appena 200 copie), peraltro continuamente ripresa in mano, fatta più volte, sia pur lievemente, oggetto di modifiche testuali e quindi pubblicata postuma in una nuova edizione che, forse, fosse lei rimasta in vita, sarebbe stata rimaneggiata ancora.
A questo proposito, osserva Lilia Bellucci: “Il lavoro interminabile sul testo è per Ortese il segno di una scrittura e di una vita concepite come negazione e ricerca, cancellazione e revisione”. Una donna ossessionata dall’espressività, la cui esistenza quindi: “è un esilio in un deserto interiore, in cui non è vista dagli altri, ma dove a sua volta sente di non riuscire neppure lei a vedere il reale”. Tant’è che Anna Maria ammise, nello scritto intitolato Corpo celeste: “Vissi in ogni luogo con animo nemico, mi sentivo, ed ero, derubata dal mondo”. D’altronde la nomade non rimase mai ferma a lungo in uno stesso posto, giacché cambiò domicilio ben 36 volte, vagando un po’ per tutta l’Italia. E la Bellucci ripercorre la parabola esistenziale della nostra scrittrice apolide, da Tripoli alla odiata-amata Napoli, per transitare in tante altre città sino all’approdo ultimo a Rapallo, dove morirà nel 1998.
Due sono le opere di cui si occupa principalmente questo saggio: L’Iguana, splendido romanzo fantastico all’insegna di uno straniante realismo magico, e il libro ortesiano per antonomasia, quel partenopeo Porto di Toledo, da cui Anna Maria salperà per approdare in seguito a tante altre straordinarie narrazioni posteriori, tra cui spiccano senz’altro i suoi ultimi due notissimi romanzi: Il cardillo addolorato nonché Alonso e i visionari. Ovviamente non vengono qui affatto dimenticate le antologie di racconti, quali ad esempio, Angelici dolori, Il mare non bagna Napoli, o scritti brevi ma memorabili su temi ecologici a lei cari ‒ soprattutto in difesa degli amatissimi animali e della natura ‒ taluni apparsi su quotidiani o riviste e recuperati nel 2016, da Adelphi, in un volume (intitolato Le Piccole Persone) che raccolse oltre una trentina di pezzi, in parte inediti.
Per concludere, oltre a consigliare la lettura di questo intenso e perspicace saggio, aggiungerei che, se fosse ancora viva, forse oggi la Ortese troverebbe consolazione e conforto nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, essendo quest’ultima all’insegna della fratellanza tra tutte le creature predicata dal santo di cui Bergoglio, divenendo pontefice, ha assunto il nome. Purtroppo però, nel XXI come nel XX secolo ‒ come possiamo leggere nel succitato volume ‒: “L’uomo vive avulso dalla Natura, in questa grande casa passa come un servo o un padrone, quasi mai come un figlio o un fratello”. Ed è questa fratellanza che manca sempre più, questa familiarità con i viventi non umani.
Domina invece da troppo tempo la separazione, la distanza abissale che sussiste, ad esempio, tra gli alveari delle nostre città e quelli delle api che stanno scomparendo: uccise dalla nostra colpevole noncuranza. Ecco l’errore principale, così stigmatizzato dalla scrittrice nel lontano 1950 (ripeto: millenovecentocinquanta): “L’essersi ritirato, l’uomo, nei confini di una meccanicità così spaventosa, in un orgoglio e in una freddezza intellettuale tanto profondi, fa pensare che le sue radici stiano per seccarsi, e verrà tempo in cui tutto l’albero sarà secco, e la terra lo rigetterà da se stessa”. Amarissima, ma perspicace profezia.
Lilia Bellucci, E tu, chi sei? Spazio, corpo, visioni in Anna Maria Ortese, Avagliano, 2024, pp. 367, euro 21,00.
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