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Scerbanenco: un milanese venuto dall’Est

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Giorgio Scerbanenco, nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko da padre ucraino e madre italiana è stato scrittore di incredibile prolificità e versatilità, spaziando con maestria in diversi campi della narrativa. Ma è con il giallo che si consacra come maestro ideale del genere. Raccontando non solo investigazioni, ma anche la “vita” e le passioni umane in ogni sfumatura, tramite una scrittura priva di fronzoli o lirismi. Un autore che merita di essere riscoperto

di Edoardo Monti

 

Volendo scrivere un romanzo, un racconto o una pièce teatrale, la fantasia d’uno scrittore di oggi non saprebbe concepire un protagonista simile a Giorgio Scerbanenco. Anzi, arrivo a dire che esso sarebbe giudicato un personaggio improbabile, irrealistico. Eppure, quest’uomo nato a Kiev ma sempre definitosi italiano – o meglio, milanese – non solo è esistito nella realtà, ma è anche stato uno dei nostri narratori più prolifici e versatili.

Una giovinezza non facile, con genitori scomparsi presto. Tanti mestieri, anche singolari (fu persino autista di ambulanze). Un curriculum studiorum che farebbe inorridire, ai giorni nostri, non dico una casa editrice, ma qualsiasi famiglia (non finì neanche le elementari). Ecco, questo fu colui che tutti oggi considerano il sommo maestro del noir italiano. Ma non solo: sebbene i romanzi di argomento criminale siano quelli cui si deve la sua fama, Scerbanenco seppe dare vita a grandi storie in tutti i settori della narrativa di genere (rosa, western, fantascienza ecc.). Da una parte esistono gialli – come Venere privata o I milanesi ammazzano al sabato – di cui basta citare i titoli per evocare il suo nome. Dall’altra c’è tutto un universo, meno noto, fatto di centinaia di suoi racconti d’ogni genere – inclusi alcuni “capolavori-limite”: succinte microstorie, spesso di mezza pagina, ma intense quanto dei romanzi potenziali (e confluite, poi, in diverse raccolte).

In cima a tutto, però, c’è Milano: la città a cui il nome del giallista distinto e allampanato, venuto dell’Est, è legato indissolubilmente. Scerbanenco, nei suoi libri di fiction, ha saputo ritrarre la città negli anni Sessanta meglio di qualsiasi documentario della tv. Di quel cuore pulsante dell’Italia del boom seppe metter in luce il lato più oscuro, là dove prosperava la miseria dell’animo umano. Ci sono pagine di Scerbanenco che risultano, tutt’oggi, terribili da leggere; di una cupezza senza riscatto. Con lui, la narrativa poliziesca italiana smetterà di intrattenere, e inizierà a voler capire. E per molti autori del crime odierno, infatti, i suoi libri restano punti di riferimento.

Oggi, non è raro che gli appassionati dello scrittore organizzino pellegrinaggi letterari all’ombra del Duomo, alla ricerca dei luoghi dei suoi romanzi (e della sua vita). Così, se in piazza Leonardo da Vinci c’è la casa ove “abitava” Duca Lamberti – il personaggio di maggior successo di Scerbanenco –, in via Plinio se ne posson ripercorrere i passi con in mente le pagine di Venere privata. E se Porta Venezia è un altro scenario riconoscibile di molti racconti scerbanenchiani, viale Tunisia ci conduce sulle orme del padre disperato di I milanesi ammazzano al sabato.

Certo, il luogo più importante rimane quella piazza Carlo Erba in cui si trovavano, ai tempi di Scerbanenco, gli uffici della Rizzoli. Fu lì, infatti, che si svolse la parte più insolita della sua vita: nell’ambiente dell’editoria. Il buon Vladimir-Giorgio (questo il suo nome completo) diresse per molto tempo delle riviste femminili, curandone anche la cosiddetta “posta del cuore”. L’esempio più famoso – ma non l’unico – senz’altro fu «Annabella», cui arrivavano le lettere di tante lettrici. Eran vicende di vita vissuta, di amori tormentati, di infedeltà subite e drammi familiari… Il tipo di cose a cui uno doveva risponder con parole di circostanza, di buonsenso borghese, per infondere alle sventurate la forza per andar avanti. Scerbanenco le leggeva, le assorbiva, dando vita dentro sé a un universo narrativo inesauribile. “Macchina per scriver storie”: così lo definiva Oreste Del Buono (consulente editoriale fra i più importanti), alludendo all’abilità nel creare trame.

Per questo è riduttivo confinare Scerbanenco nel mero ambito noir, come prescrive un certo marketing. La sua Milano – più che di sangue, indagini e rapimenti – è una Milano di passioni umane, di sentimenti covati nell’animo. Ci sono i rapporti tra uomo e donna, la solitudine, le gelosie, e i cedimenti di chi non riesce a adattarsi all’esistenza, in una metropoli in pieno sviluppo economico. Egli stesso ebbe a scrivere, come intima riflessione: “Evidentemente, i miti morali che ci sono stati tramandati […] sono però inadatti alla natura umana […]. E sono inadatti in quanto sia la storia di ogni individuo, sia la storia in generale, sono quasi un continuo insulto a quei miti che pure vengono continuamente ripresentati come ideali. […] È possibile – si tratta di una domanda – postulare diversi miti morali, più adatti alla natura umana? O, non potendo rifiutare quelli inadatti che abbiamo, si deve perennemente vivere in questo assurdo di un bene conclamato e quasi mai effettivamente praticato? […]”.

Mica male, una tale profondità speculativa, per chi è spesso ritenuto solo un autore di genere! E del resto, del milanese vissuto in pieno boom Scerbanenco ebbe anche una certa forma mentis: quella dell’italiano settentrionale (un po’ “di frontiera”) che vedeva passare molta gente sulla sua terra, in arrivo da vari Paesi. Tutto ciò – unito all’eterno complesso di sentirsi “straniero”, per il suo cognome inconsueto – lo rese uno scrittore tutt’altro che provinciale. Nei suoi racconti, accanto agli italiani, si possono incontrare personaggi tedeschi, ebrei, francesi, americani, austriaci ecc. Quale nesso può esserci (per far un esempio) fra il periodo di vacanza trascorso in Italia da una giovane teutonica e la sua morte violenta, che avviene per mano d’una guardia al confine tra Berlino Est e Berlino Ovest? È questa la trama d’uno splendido racconto intitolato da Scerbanenco “Warum?” Perché?

Scerbanenco morì alla fine degli anni Sessanta. La grande beffa della sua vita fu che essa terminò nel momento in cui la fama letteraria stava decollando. Anche l’industria cinematografica non stette a guardare, e cercò di accaparrarsi i diritti delle sue opere (soltanto dalla raccolta di racconti Milano calibro 9 vennero tratti tre film). “La vita è un pozzo delle meraviglie, c’è dentro di tutto, stracci, brillanti e coltellate in gola”. Anche questa è una considerazione che lasciò scritta; e io penso che i critici e i biografi dovrebbero fermarsi qui, senza aggiungere altro su Scerbanenco. L’altra faccia del benessere, che egli seppe ritrarre in tutta la sua abiezione, ci riguarda da vicino. Le siamo figli, quando guardiamo le attuali serie tv nelle quali i criminali rubano la scena, e il malaffare è l’anima del mondo consumista. In qualità di spettatori, continua a affascinarci il cuore nero della specie umana, con le sue pulsioni irrisolte.

L’umiltà di Scerbanenco – che fu uomo serio e stacanovista sul lavoro, com’è nell’habitus meneghino – restituisce l’immagine di un’epoca in cui c’era, nei mestieri editoriali, ancora molta artigianalità – ma forse, proprio per questo, anche più creatività. Oggi si pensa un po’ troppo agli attestati, alle qualifiche. Mentre il magro Vladimir-Giorgio, venendo dalla povertà – e con la sola sua intelligenza nata dall’osservazione –, ha saputo, addirittura, assurgere al ruolo di “classico”.

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Aritcolo Pubblicato su Leggere:tutti N°151 Novembre

 

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