Lo Zibaldone - Recensioni
Religione e ragione
di Francesco Roat
Il titolo dell’ultimo interessante saggio di Marco Vannini, Sulla religione vera, si rifà ad uno dei più notevoli libri di Agostino: il De vera religione, in cui l’Ipponense ‒ ritenendo che la filosofia, ossia la ricerca della saggezza, equivalga all’autentica (e unica) religione: intesa, similmente a Lattanzio, come ciò che più lega/unisce spiritualmente gli uomini ‒ afferma che chi intende accostarsi al vero: “cerca l’Uno, di cui niente è più semplice, perciò deve cercarlo nella semplicità del cuore”; in quanto la verità abita in interiore homine: nel profondo dell’uomo, ove risplende una luce che illumina l’anima. Nota opportunamente, a tale proposito, Vannini che quest’idea ha insieme origine neoplatonica e giovannea, dunque propria di un cristianesimo quale religione del Cristo-Logos, ovvero di una religiosità all’insegna della ragione.
Una religio, tuttavia che non dovrebbe fondarsi sulla mera credenza in miti, idoli, culti e testi sacri (o peggio ancora nell’adesione ai dogmi chiesastici), ma nella fede/fiducia in detta phos o luce interiore, vista ‒ dice bene Vannini ‒ quale “unica fonte di verità”. E aggiunge: “salvezza”, che non comporta minimamente: “una qualche prosecuzione di questa esistenza fisica in un tempo orribilmente senza fine”, bensì il vivere, qui e ora, in una tempiternità (per dirla con Panikkar) costituita da un presente non più costretto da alcuna gabbia temporale, e che si emancipa quindi da chronos per assurgere a kairos: il tempo/momento opportuno, l’occasione per vivere pienamente/felicemente.
Audace e provocatoria, ma pure profondamente significativa, è altresì l’affermazione dell’autore intorno alla filosofia che, a suo dire, “appartiene soltanto al mondo classico”, in quanto nel periodo moderno e postmoderno essa diviene altra cosa, trasformandosi da amore per la sapienza in una serie di teorie che si contrappongono fra loro in un giuoco tutto concettuale. Così i vari loghismoi (pensieri vani) prendono il posto del logos e della convinzione: “della profonda unità Dio-cosmo”, nonché “della natura vera dell’uomo come natura spirituale, che trova il suo fine non nel sensibile ma nel soprasensibile”. Ovvio che quest’ultimo vocabolo sia essenzialmente una metafora: allusiva non già di un ambito spazialmente superiore o celeste che dir si voglia ‒ in quanto in una tale ottica si verrebbe a creare un dualismo insormontabile tra Dio e mondo ‒, ma della necessità di procedere oltre la fisicità onde aprirsi ad una prospettiva contemplativa davvero meta-fisica.
Filosofia (e/o religione) allora quale medicina dell’anima, quale scoperta che al fondo di essa sta la “miglior parte” di noi, la quale può essere senz’altro identificata giusto con la “Ragione universale, divina” ossia con “il Logos che tutto governa”. Tornando ad Agostino, il suo invito ‒ analogo a quello dell’amato Plotino e sempre espresso nel De vera religione ‒ non per nulla recita: Noli foras ire, in te ipsum redi (Non uscire fuori di te, torna in te stesso). Ma ciò significa prendere le distanze dal piccolo io egocentrico che d’altro non si cura che di sé; anzi ‒ come propongono i mistici di ogni tempo e luogo ‒ si tratta di far morire questo ego per poter rinascere spiritualmente. È quanto afferma il Cristo a Nicodemo: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio”. (Gv 3,3-8).
Filosofia (e/o religione) dunque quale askesis o esercizio volto a superare l’egoità, come la sua meschina volontà e velleità. Ascesi che si risolve, secondo Platone, nell’esercitarsi a morire (melete thanatou), non certo per banale masochismo, ma appunto per una nuova vita migliore. Ciò implica il distacco ‒ quello che il Buddha ebbe a chiamare non-attaccamento ‒, l’accettazione di ogni evento e perfino quello che Nietzsche indicò essere lo stoico amor fati (l’amore nei confronti del proprio destino) ossia il sì senza condizioni (Ja – und Amen) rispetto a tutto quanto la vita ci pone di fronte. Solo così si giunge a quella che Meister Eckhart e Angelus Silesius definirono Seeligkeit (beatitudine): una gioia dell’anima che non viene turbata dalle vicissitudini né accresciuta dalla prosperità.
Aphele panta (spogliati di tutto), ammonisce quindi Plotino invitandoci a rimuovere l’inessenziale, per una sobrietà/povertà materiale ed intellettuale che viene esaltata dai mistici cristiani come la condizione per un’autentica purezza/ricchezza spirituale. Parallelamente l’amore di Dio, magnificato da essi: “significa” ‒ precisa Vannini ‒ “quel movimento dell’intelligenza che non vuole possedere, afferrare, avere ed essere, ma al contrario, contemplare, guardare in gioioso distacco, ritraendosi, per così dire, per lasciar essere l’essere”. Mediante una sana/santa indifferenza che equivale a non fare differenza tra le cose, ovvero implica amare egualmente ogni cosa. Ma lasciamo infine l’ultima parola all’autore di questo puntualissimo testo:
“Quella «indifferenza» che si conquista facendo tacere la volontà egoica, astenendosi rigorosamente dal desiderio, diventa perciò equanimità verso tutte le creature, gioioso consenso al momento presente che ci è dato dal destino e, infine, un sentimento di estasi cosmica, giacché la presa di coscienza del nostro rapporto col cosmo procura pace e serenità infinita: concentrati sull’istante presente, sospendendo ogni volizione, si scopre infatti il valore infinito della nostra presenza nel mondo, ove tutto quel che è, è bene (eu esti)”.
Marco Vannini, Sulla religione vera. Rileggere Agostino, Lindau 2023, pp. 181, euro 19,00

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