Connect with us

Articoli

Ponti sull’abisso

Published

on

di Francesco Roat

Risulta senz’altro condivisibile quanto emerge sin dalle prime pagine del nuovo saggio di Roberto Caracci e cioè che la domanda di senso è la “più originaria e radicale” che si sia mai posta l’homo sapiens e si rivela il perno intorno a cui ruotano da sempre le nostre vite. Mai però come ai giorni nostri ‒ orfani di ideologie e teologie, sospesi tra noia e passioni tristi, disincanto e relativismo, egocentrismo miope e indifferenza per il benessere collettivo ‒ tale interrogativo basilare sembra assente o rimosso. Ad esso semmai si tende a rispondere con l’amara constatazione che non ci resta altro se non rilevare sconsolatamente: “l’assenza assoluta di senso o dei valori”. Ciononostante la nostalgia del senso perduto (o fantasticato) può creare disagio in molti di noi che lo ricercano invano, vogliosi di raggiungere una pienezza ideale o ritrovare, se non proprio quel dio che secondo Nietzsche ormai è morto, almeno un qualche telos: uno scopo o obiettivo anche minimale verso cui indirizzare l’esistenza.

Ecco perché, nonostante crisi, nevrosi e cinismo, tendiamo un po’ tutti quanti a rintracciare o sognare un’odos, una via d’uscita dalla quotidianità frustrante se non proprio un senso ultimo. Ma cerchiamo qualcosa che ci manca, senza neppur sapere bene cosa, scrive l’autore. Qualcosa che paradossalmente ci distragga, ci tragga fuori dal pensero del significato che non riusciamo a trovare in noi o fuori di noi. Ed ecco allora una soluzione praticata da fin troppi, ovvero il non pensarci più e gettarsi invece a capofitto nel lavoro o in qualche altra attività che paia sensata e promettente, se non altro in termini di profitto economico. Oppure cedere al facile consumismo, quasi che l’oggetto acquistato: una nuova automobile, o casa, o vacanza esotica ‒ e chi più ne ha più ne metta ‒ potesse mai saziare la fame e la sete di senso.

Che fare allora? Non si pensi affatto che questo intelligente, acuto e provocatorio libro di Caracci voglia porsi quale banale baedeker o sin troppo facile guida per delusi e illusi di reperire finalmente a buon mercato un qualche senso minimamente apprezzabile. Semmai qui ‒ più che risposte o soluzioni ‒ vengono proposti ulteriori interrogativi da cogliere quali incentivi o spunti per una riflessione che sia originale, autentica e, perché no, inventiva. Si pensi solo a questa poetica considerazione: “è vero che noi ci sentiamo nella vita come dentro una limitata piscina o una vasca, ma dobbiamo invece sentirci nella vita come dentro un oceano, di cui non vediamo i confini, i limiti, il punto di partenza e quello di arrivo”.

In questa visione alternativa, la fuoriuscita da quanti sentiamo come ostacoli, limiti o vincoli sta nella possibilità di trovare giusto in essi un varco, un passaggio quale è indicato dalla parola greca poros che significa strada/condotto ma al contempo espediente/strategia. Si tratta allora di sperimentare uno sguardo prospettico che ci consenta di approdare a una “dimensione immaginativa, onirica, visionaria”, giacché, dice bene Carocci ‒ in una frase che mi ricorda Rilke ed il suo celeberrimo invito: “Getta dalle braccia il vuoto / verso gli spazi che noi respiriamo” ‒: “i pori dei nostri polmoni sono il poroso cordone ombelicale che ci lega al cosmo (…). L’universo ci rende liberi” (…) Il varco è energia, energia contraria all’angoscia, la forza di andare, di passare, di uscire, di oltrepassare, di fare da ponte”.

È l’affidarsi all’eterno spazio ed all’aperto cantati dal suddetto scrittore praghese, magari anche solo attraverso il chiudere gli occhi (e la bocca): tramite quel myein mistico contemplativo che significa aver piena fiducia nella vita, nella natura o, detto in termini spirituali, in quella dynamis o potenza che Dante chiamò metaforicamente “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ed è pure il ritrovare lo stupore dell’innocenza infantile. Platone nel Teeteto fa dire a Socrate che il meravigliarsi dà origine al filosofare, ed Aristotele, in un celebre brano della Metafisica, sostiene che la filosofia nasce giusto a causa della meraviglia (dia to thaumazein): dal nostro stupirci di fronte a quanto ci affascina, ci commuove e al contempo ci inquieta; in quanto il filosofo, ovvero l’amante del sapere, non è tanto un fabbricante di teorie e concetti quanto il saggio che si interroga sul significato che ha per l’uomo ogni cosa del mondo che suscita in lui la benefica meraviglia.

Si tratta forse allora di: “Uscire dal determinato, metterci in cammino anche controsenso, ma assumendo e metabolizzando in noi la predisposizione teleologica passivamente ereditata, che poi nutre la nostra stessa libertà di muoverci negli orizzonti dell’esistenza”. Si tratta altresì di vivere ed operare creativamente in modo, appunto, poetico-poietico. È il suggerimento conclusivo di Carocci, il quale, oltre che saggista è pure narratore abilissimo. Si tratta infine di avventurarsi nell’umano, troppo umano azzardo di scrivere e riscrivere in modo autonomo la trama della propria esistenza, cercando di reinventarla senza sosta. Magari non troveremo affatto il Senso con l’iniziale maiuscola ma rimarremmo pur sempre, in cerca di un senso provvisorio, dei tenaci: “pellegrini orfani di Verità, e resilienti nell’accettazione dell’assurdo”.

E concludo, permettendomi di menzionare, sempre all’insegna del dire poetico ‒ anche se l’autore non li ha citati ‒, gli splendidi versi di un distico del mistico Angelus Silesius sul mirabile non-senso della rosa, la quale non ha bisogno di trovare il significato della sua vita, perché semplicemente/umilmente essa è gioiosa di esistere: “La rosa è senza perché. Fiorisce poiché fiorisce, / Lei a se stessa non bada, non chiede che la si guardi”.

Roberto Caracci, Ponti sull’abisso. La domanda di senso nell’epoca della zavorra triste, Moretti&Vitali, 2024, pp. 359, euro 22,00

Continue Reading
Click to comment

You must be logged in to post a comment Login

Leave a Reply

Copyright © 2020 Leggere:tutti