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Poesia

“Pomeriggi perduti” di Michele Nigro

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di Gisella Blanco

Cos’è la poesia se non un “felino di casa” che “abbandona notturno/le vecchie ossa/di madre adottiva,/forse già avverte/il freddo dell’aldilà/la malattia e la morte/accampate sull’uscio/dell’umano declino”? E cos’è la vita se non “una casa lasciata da sola” in cui “si rifugia forse lo spirito/della storia che non conta/il tempo/perché tempi non conosce” se l’uomo non saprà sorridere dell’attimo in cui dimenticherà se stesso- con tutta l’ironia del mondo- “sui marciapiedi dell’universo”? Solo in un tempo e in uno spazio che acquisiranno l’autonomia e la dignità del “non più tempo non più spazio” sarà possibile “diluire la vita incompresa”, diradare la folla pulviscolare delle tumultuose acque esistenziali per giungere a quella chiarezza in cui ci si scopre tutto e niente nella “città che guariva”. Si acquieta impertinente il perbenismo comportamentale, quasi un vizio di specie (“ordine di civiltà domenicali”) tra esseri viventi che sanno di essere “vicini non estranei” eppure continuano a non riconoscersi nel vezzo feroce dell’abitudine alla noia (“non li scalfiscono le letture dei poeti”) cui sfuggono solo con il capriccio della follia (“dalla finestra aperta/mi raggiungono psicosi da strada”). Se la casa di un custode “con la sua luce tenue/da vita privata/veglia ancora oggi su quello che fummo”, fuori, nei recessi più nascosti delle città, tutti noi sappiamo che c’è quel “club privè/dopolavoro per manovali/vogliosi, poco spirituali” che si apre con una porticina appartata, un ingresso riservato “glabro come un glande” che si annuncia quasi per caso “al viandante eretto ma non eretico”. In fondo, la perdizione dell’uomo sta tutta in quella mancata eresia. Affiora l’amore, quasi evento incidentale o accidente del caso -ancora il caso- nella presenza-assenza di una lei innominata che ha la consistenza porosa della nostalgia e il corpo intatto della poesia che, a volte, cade a terra, riversa “a mo’ di mort’ammazzati”. Sinestesie, ossimori e allitterazioni giocano con le immagini di città, di vita quotidiana, di elementi naturali che s’improvvisano correlativi oggettivi per superare la sensazione e giungere nella dimensione istintuale dell’inconscio per “registrare l’universo/ripulendo il segnale dall’io/ritornare vergini alle origini/bambini non ancora istruiti/da civili menzogne”). “Pomeriggi perduti” è un’insegna al neon che richiama le suggestioni elettriche govoniane, rimbalzandole ai tempi del digitale in cui afflati retorici e ispirazioni contemporanee si mischiano, confondendosi: l’uomo si salva soltanto sfuggendo a se stesso, ed ecco l’afflato più feroce del post-modernismo. Eppure si ritrova, vigile tra i versi, il ristoro di un’immagine: “In silenzio, da padre a figlio/mirando l’infinito di oggi/da laiche trappe/si eredita il da farsi”. Con un “nuovo approccio jazz all’esistenza”, con una archetipica laicità profusa in nuove competenze etiche, la morte riacquisisce “gravità zero” e il futuro non sarà più un segreto indicibile.

“Pomeriggi perduti”

Michele Nigro, Kolibris,

12 euro, 107 pag.

 

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