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Poesia

Pillole poetiche eretiche

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di Gisella Blanco

Esistono balsami taumaturgici che si applicano ai nervi più scoperti e dolenti, quelli che non sono fatti di carne e il cui sollievo può risiedere in certa poesia potente e conturbante, nel significato e nel significante, come quella di Eretica Edizioni. In “Prima di spegnersi”, Marco Esposito racconta una realtà futuristica e futuribile che è destino disvelante la facoltà di sfuggire all’ordine costituito delle cose. Il corpo è contraltare di una natura ostica (“Qui la terra in nostra contumacia trattiene il buio e non parla più”), tende al decadimento (“cancro dentro il cancro”) che è simbolo ed effetto dell’opera cinica dell’uomo (“pelle che cresce nella pelle”) nel suo mondo. Lo stupore è l’intuizione delle infinite possibilità dell’uomo. Luca Atzori, nel suo “Vangelo degli infami”, canta chi viene privato di ogni diritto, di ogni statura, di ogni posizione ragionevole (“essere tristi significa essere fottuti”), con profondo senso d’appartenenza umana (“trasfigurare il viatico in un florilegio che raccoglie le storie delle nostre sconfitte in autobus”) attraverso un linguaggio pornografico, sperimentale, privo di sintattica come un flusso di coscienza. La decadenza è la sensazione che pervade l’opera e che culmina nella salvezza attraverso l’infamia di se stessi. Francesco D’Aleo scrive “Era il tempo dei naufragi” nelle sue “Liriche del viandante”, immortalando continui correlativi oggettivi che descrivono terra, mare, vegetazione e fauna per giungere appena oltre il percepibile, nei luoghi della psiche in cui siamo tutti concittadini ma, allo stesso, sembra non abitare nessuno. Serena Mansueto scrive “Sono nata per gioire dei movimenti dell’acqua, del profumo degli alberi umidi (…) allacciata al vento, al nulla” per offrirci una lirica che diventa sollievo, come se fosse una terapia che precede la malattia (“creami a forma di poesia, (…) veglia su questi versi nel tuo museo di pace interiore”), usando la descrizione paesaggistica (“fresca placenta d’acqua soffiando aria di ventagli tra le mani legnose di questi popoli”), per digressioni su dati biografici dotati di chiave pluralistica. La ruggine invita alla scoperta di cosa c’è sotto: ripulire, scartavetrare, ecco cosa fa il poeta. Giulio Valentini, con il suo “Ti amo ma sono asintomatico” ripropone il topos dell’amore come malattia, fatto di piaghe dolorose e gioia del quotidiano (“I vecchi lo sanno: la maggiore paura di un uomo congelato è riconoscere l’amore”) attraverso viaggi, cucine, camere da letto, litigi, silenzi, gatti, treni, autobus e una vena sempre ironica (“Un giorno l’amore mi ha detto che per farla funzionare la convivenza bisogna ispirarsi al latte di soia”). L’amore è una comune pandemia ma può essere la meraviglia della guarigione da se stessi.

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