Lo Zibaldone
Metamorfosi
di Francesco Roat
Il recente saggio di Emanuele Coccia, Metamorfosi, ci invita a prendere atto di un’idea tanto semplice quanto fondamentale: la vita di tutti gli esseri è una, in barba alle diverse specie; al fatto che poco conta si tratti di uomini o elefanti, di fragole o formiche, di abeti o di virus. “Tutte le forme di vita ‒ sottolinea il Nostro ‒ sono figurazioni di una medesima sostanza, modi accidentali che non smettono di crearsi l’uno dall’altro e di distruggersi l’un l’altro”. Siamo insomma tutti fratelli, per quanto siano enormi le differenze tra una modalità d’esistenza ed un’altra. Come a dire: le specie non dovrebbero venir considerate rigide entità sostanziali; semmai, come poeticamente li chiama Coccia, degli instabili: “giochi di vita”, delle configurazioni destinate perennemente a mutare.
Quando parliamo di metamorfosi, però, tendiamo a prendere in considerazione solo le più eclatanti ‒ ad esempio il mirabile e sorprendente mutamento dal bruco alla farfalla o dal girino alla rana ‒ e quelle letterarie ‒ come la mitica trasformazione di Dafne, convertita in alloro, o di Narciso trasformato nel fiore omonimo. È opinione assai diffusa, infatti, che le metamorfosi siano eccezioni, non già la regola. Coccia, al contrario, ribalta questa credenza ingenua, giacché ogni nascita può essere colta quale mutazione/modificazione di corpi anteriori (quelli della coppia genitoriale). Saremmo dunque in un certo qual modo costretti a metamorfizzarci, a riplasmare altrimenti la vita riconfigurandola in diversi e nuovi aspetti.
L’esistenza di ognuno, per dirla con un’espressione pubblicitaria, “è sempre una versione più recente di quella che la precede”. Ed una volta nati, non c’è scampo: dobbiamo mutare, trasformandoci di continuo sino alla morte; la quale può esser vista ancora una volta non già come una mera cessazione della vita ma come un’ulteriore sua metamorfosi. Negli animali selvatici è più facile cogliere tale aspetto, giacché, dopo il decesso, vengono divorati da altre bestie venendo inglobate da queste e diventando perciò parte della loro stessa carne. Noi, una volta inumati e/o cremati, sembriamo farci solo terra e/o cenere; ma anche questa è una visione riduttiva, quasi che l’inorganico non avesse a che fare con la vita, mentre è essa a provenire, in origine, da quanto vita non era ancora.
Tuttavia l’uomo contemporaneo è ossessionato/oppresso dalla morte, come peraltro dalla decadenza. Egli vorrebbe arrestare il tempo e l’invecchiamento e sogna ancora di raggiungere un’immortalità individuale, non riuscendo a cogliere il vero e proprio miracolo per cui in natura nulla davvero muore ma tutto si trasforma; né a pensare alla vita come un dono da parte degli antenati; dono che a nostra volta dispenseremo alla progenie futura. Inoltre, dice bene Coccia, soggetto di ogni metamorfosi è innanzitutto la Terra, il nostro pianeta, e “ogni vivente non è che un riciclo del suo corpo, un patchwork costruito a partire da una materia ancestrale”. Ma non limitiamoci a questo minuscolo corpo celeste. Potremmo asserire piuttosto che l’universo sia la causa e la materia della stessa metamorfosi; in quanto, anche se questo può dispiacere a molti, non esiste dal big bang una forma stabile, definitiva, fissa: tutto è invece divenire incessante.
E l’ultimo neonato al mondo è costituito: “di una materia che abitava questo pianeta prima della comparsa di qualsiasi forma di vita”. Le sue componenti più minuscole ‒ gli atomi che lo compongono ‒ provengono dalle stelle e un domani, dopo la scomparsa della Terra, verso altri astri migreranno. Niente e nessuno ha stabile dimora; ma ciò, lungi dall’inquietarci, dovrebbe consolarci: sai che noia restare sempre uguali e mai cambiare! Ogni ambito/essere ha una sua durata e poi varia sino a scomparire per far posto ad altre configurazioni tramite nuove metamorfosi.
Tornando alla nostra esistenza ‒ umana, voglio dire ‒ come non rendersi conto allora che ogni vita: “non può limitarsi a un solo ambiente, a una sola nicchia, a un solo mondo”? Perché ostinarsi nel sogno/desiderio impossibile di arrestare il flusso della vita entro uno stadio artificiale che ‒ privo di involuzione ma pure di evoluzione ‒ finirebbe con l’essere un incubo all’insegna della stasi? Apriamoci dunque senza eccessivi timori al divenire e al mutamento (sembra giusto riassumersi in ciò l’auspicio dell’autore) perché questo, come sempre è accaduto e accade, accadrà. In chiusura una postilla/ammonizione filosofica assai condivisibile: “E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso”.
Emanuele Coccia, Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita, Einaudi 2022, pp. 196, euro 17,00

You must be logged in to post a comment Login