Thriller
Martin Rua, “Il cacciatore di tarante”
Definirlo semplicemente un noir con risvolti esoterici appare alquanto riduttivo, dal momento che Martin Rua ha riversato ne Il cacciatore di tarante, il suo nuovo romanzo edito da Rizzoli, molti degli interessi, degli studi, delle passioni e delle discipline che costituiscono la sua eterogene e fascinosa officina scrittoria.
L’opera segna infatti una svolta rispetto alle precedenti dell’autore napoletano: a partire dall’epoca: ci troviamo nel 1870, a ridosso quindi di quella unificazione politica della penisola realizzata sotto casa Savoia e che ha svilito e rinnegato molte delle istanze risorgimentali che volevano l’Italia, una, sì, ma repubblicana, e di cui rimangono tracce nella breve e gloriosa repubblica romana del ‘48 e – mutatis mutandis – in quella napoletana, altrettanto breve gloriosa e drammatica del 1799. Rua predilige ancora una volta la strada del noir che gli è congeniale per addentrarsi in un racconto di quegli anni di sussulti e di speranze in cui si doveva realizzare il difficile amalgama (quella, sì, un’alchimia) tra realtà tra loro differenti e diffidenti: con quel Sud ambito eppure considerato terra non da assimilare ed equiparare ma da conquistare e civilizzare, partendo da una serie di presupposti viziati ed etnocentrici cui non furono estranee le teorie fisiognomiche del Lombroso (quanto diverse dagli studi precedenti su tale tema del nostro Della Porta) e quelle addirittura razziste del de Gobineau espresse nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane: autori che non a caso Rua cita nel corso dell’opera.
Questo, in sintesi, il milieu: fertile, come si deduce, di molteplici possibilità narrative che Rua intuisce e sviluppa, abbandonando la contemporaneità delle precedenti opere per realizzare una storia avvincente e intrigante che si dipana inizialmente tra le due città di Torino e Napoli, antitetiche, anche geograficamente, ma complementari per diversi aspetti: in primis quello di patire entrambe l’onta del declassamento dal ruolo di capitali (del regno sabaudo la prima e di quello borbonico l’altra). Ma anche di essere due città di radicata tradizione magico-alchemica. Così, quando occorre indagare su una serie di morti e scomparse sospette che avvengono nel territorio salentino, il governo del nuovo stato, anche nella speranza di accreditarsi in un territorio di salda nostalgia borbonica in cui spadroneggia ancora il brigantaggio, decide di inviare a indagare il miglior agente investigativo del Regno, Giovanni Dell’Olmo, ispettore di Pubblica Sicurezza a Torino, distintosi già nelle difficili e comunque irrisolte indagini su una serie di delitti di giovani donne attribuiti a un criminale soprannominato l’Imbalsamatore.
Ad affiancarlo, sia per i legami familiari col territorio, sia soprattutto per la sua indiscussa fama di scienziato, ci sarà il duca Carlo Caracciolo de Sangro, discendente del Principe di Sansevero: forse una sorta di omaggio da parte dello scrittore a quel Raimondo die Sangro della cui figura Martin Rua si attesta come uno dei maggiori studiosi attuali. Torniamo alla storia. Il rapporto tra i due appare subito non facile, complicato da diffidenze e pregiudizi reciproci e differenze caratteriali: tanto esuberante, ironico e irriverente il nobile napoletano, quanto compassato, rigoroso e formale il piemontese, il quale, per di più, sbatacchiato dopo un viaggio all’epoca lunghissimo e faticoso, giunge nella città campana accompagnato da un bagaglio di prevenzioni e timori: una situazione che potrebbe ricordare lo stato d’animo iniziale del protagonista del film Benvenuti al Sud, ma che a un occhio attento può richiamare anche un referente più colto e più consono alla situazione e all’epoca: si pensi alle pagine del Gattopardo dedicate all’arrivo a Donnafugata del cavaliere Chevally: un piemontese burocrate, impaurito e prevenuto ma ben presto soggiogato dalla maestosità del luogo e dalla saggezza lungimirante del Principone. Ecco, qualcosa del genere accade anche qui, ovviamente in corso d’opera, dopo che a i due protagonisti è stata concessa l’opportunità di misurarsi e valutarsi reciprocamente in azione. E ciò avviene nella terza location del romanzo: dopo Torino e Napoli, la vicenda si sposta infatti in Salento, ad Ariadne, località immaginaria, in cui ben cinque donne che lavorano nei campi trovano una morte dolorosa e misteriosa forse a causa di quella taranta che imperversa tra le campagne e le superstizioni di quella terra. Martin Rua costruisce un giallo rigoroso e coinvolgente allargandosi nel contempo a temi complessi e ancora attuali perché cerca di risalire alle molteplici concause che hanno contribuito al perdurare di sacche di arretratezza economiche e sociali. Le carestie frequenti, la mancanza di una seria riforma agraria che abolisse il latifondo, la miseria e l’analfabetismo, il brigantaggio: a tutto questo si deve aggiungere anche la sopravvivenza di antichi culti naturalistici e paganeggianti, mai debellati e che hanno continuato a esistere contaminandosi in svariate forme di sincretismo con la ritualità cristiana, generando credenze e superstizioni. E’ il mondo magico di cui parla Ernesto De Martino e che Martin Rua ha ben presente, un mondo arretrato e rurale in cui opera quella destorificazione del negativo che serve a esorcizzare la durezza e le difficolta dell’esistenza sganciandole dalla contingenza storica fino ad arretrarle in una dimensione atemporale e fatalistica, in cui l’uomo non è più artefice consapevole delle proprie azioni, e il male non è controllabile e può assumere svariate forme. Anche quelle di una tarantola assassina.
Martin Rua
Il cacciatore di tarante
Rizzoli, 2020
pp. 363, euro 19,00

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