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Poesia

L’arte dell’haiku: un approfondimento

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di GISELLA BLANCO

“Ricordo, infatti, che è proprio la capacità di stupirsi innanzi alla bellezza del cosmo una fra le forze primigenie del fare poesia”: con queste parole, Antonio Sacco, autore del Manuale di scrittura haikai (Nulla Die, con la prefazione di Valentina Meloni e la postfazione di Niccolò Tucci), introduce il centralissimo capitolo sull’origine dell’ispirazione poetica quando si vogliono scrivere haiku. Anche se tale affermazione, seppur molto condivisibile, può non rientrare in linea con tutti i tipi di produzione poetica, continua a rappresentare la bussola delle più pregevoli voci autoriali (e qualcosa dice anche al genere della critica).

Tale manuale, oltre alla precisione accademica rispetto all’analisi di haiku, tanka, senryū, haibun e haiga, nonché al lodevole sforzo di concentrarsi non solo sulla teoria normo-sintattica e morfo-sintattica ma anche sulla pratica relativa a queste forme di scrittura in versi, compie delle operazioni intellettuali – prima che letterarie – degne di nota e di attenzione, affatto secondarie rispetto agli scopi enunciati in prima istanza.

Non essendo questa la sede adatta per entrare nel merito linguistico della poesia giapponese, tema principale dell’opera, sembra d’uopo precisare come ogni capitolo contenga non solo le informazioni complete sull’argomento di volta in volta trattato ma anche delle taglienti illuminazioni sull’atto di scrivere che – è sempre utile ricordarlo – è un atto di responsabilità.

Tra gli aspetti formali inerenti lo haiku, spicca (non per rilevanza ma per significato extranormativo) lo “stacco”, uno iato che ha la funzione di “creare una sospensione del discorso poetico e/o un cambiamento ritmico grammaticale”. Se, come specificato dal severissimo Pound sulla poesia, “L’immagine è un complesso emotivo e intellettuale in un istante di tempo, per richiamo visivo”, l’esercizio di questo sfalsamento che è sia testuale che ermeneutico, rappresenta un’ottima sfida non solo alla possibilità di cogliere quella bellezza del cosmo di cui scrive l’autore, ma anche e soprattutto di renderla poesia, lontana dalla mera descrizione delle cose, oggi tanto ricorrente perfino tra chi scrive in versi.

L’idea della presenza necessaria della “stagionalità” tra gli elementi contenutistici degli haiku può apparire, in un’ottica che consente di valutare l’opera non solo in quanto efficace vademecum, come correlativo oggettivo letterario ed extra letterario della necessità che l’autore radichi il proprio scritto in un’area cronologico-tematica, endostorica e psicologica (ma non solo in senso solipsistico) ben definita, almeno consapevole, seppur non dichiarata.

Con la caduta del canone poetico occidentale, appare singolare e stupefacente come ci possano essere schemi di componimenti poetici, appartenenti a una zona antropologico-culturale molto distante dalla nostra, capaci di essere adattati, senza snaturarsi, anche alle nostre esigenze. Sacco lo spiega molto bene tra le varie sezioni del suo libro.

La raccomandazione sulla fondamentale economizzazione di ogni singola sillaba all’interno di una poesia, comune alla lezione di Amelia Rosselli (Spazi metrici), può essere di sprone anche per i poeti occidentali che utilizzano le forme lunghe, poiché in poesia gli sprechi non dovrebbero essere ammessi, tranne nel caso che abbiano un ruolo specifico e voluto all’interno del testo o nel dialogo tra i testi di una stessa opera.

D’altronde, nel nostro Novecento, sono stati svariati gli esempi di grandi poeti che hanno provato a scrivere in haiku, tra i quali Ungaretti (e qualcuna delle sue poesie più celebri lo dimostra), Zanzotto con i suoi “pseudohaiku” e Sanguineti. Renato Minore, invece, nell’opera O caro pensiero del 2019 (Nino Aragno Editore), ha inserito dieci tanka.

Viene da domandarsi se, superata (o no?) la querelle tra novecentismo e antinovecentismo, il bisogno di tornare a forme prestabilite, che siano quelle in esame o le forme chiuse della tradizione europea, rappresenti la curiosità di riscoprire la tanto bramata libertà all’interno di strutture formali fondanti in cui lo spazio non è limitato ma solo ben organizzato.

Provare a imparare a scrivere haiku può essere un buon esercizio anche per il poeta occidentale che non intenda, in definitiva, scrivere solo haiku?

Nella divisiva eppur ancora emblematica coesistenza di forma e senso, di certo l’esperienza della forma non può che aumentare l’agilità dello scrittore tra i suoi stessi testi. Così, è possibile tornare a pensare al rispetto delle regole metriche, e al loro superamento, solo a condizione di una radicata consapevolezza su di esse, e sulla tenuta dei propri testi sia con le regole che senza.

Molto rilevante è anche il capitolo sul “ruolo dell’io lirico”, sulla prospettiva di una “riduzione dell’io” che non lo faccia sparire (fintamente) come in alcune sperimentazioni contemporanee ma che non lo ponga nemmeno in una maggioranza assoluta e gerarchica rispetto al contesto semantico e all’impatto con il lettore che è il necessario e immancabile referente del testo.

La lunga e articolata riflessione di Sacco sul collegamento con il presente, sull’uso diffuso del tempo presente negli haiku, può essere intesa come istanza di veridicità della poesia, di attinenza alla realtà, alla propria realtà, come sosteneva Giorgio Caproni, parafrasando un po’, a proposito di quei testi che non contengono elementi di vero.

Il sottocapitolo sul “non detto”, come la parte dedicata alla rilevanza del labor limae rispetto al processo di creazione poetica, sono pagine generose di consigli che si potrebbero integrare, allontanandosi però dalla cultura giapponese, all’indimenticabile saggio di Gardini sugli stessi temi (Lacuna, Einaudi).

Come ha proverbialmente affermato Wittgenstein, “Tutto ciò che può essere detto si può dire in modo del tutto chiaro; e su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

Nell’attraversare la differenza tra asse paradigmatico e sintagmatico, Sacco svela importanti nessi linguistici che ineriscono la scelta delle parole e il loro ordine all’interno di un testo, cosa da cui un autore non può prescindere, che gli piaccia o no.

Se il capitolo sui vari canoni estetici che si possono rendere all’interno di queste forme di poesia giapponese consente di entrare nel cuore di una tradizione che può apparire lontana, è in ogni caso utile riflettere sul sentimento che sta alla base della stesura di un testo e che non può non coincidere con il registro linguistico utilizzato.

L’uso della similitudine è sconsigliato negli haiku eppure, nella nostra tradizione, è perfino abusato: ecco che l’impatto delle figure retoriche non solo corrisponde alla koinè di un luogo e di una determinata civiltà ma ne sancisce l’espressività congenita.

Sacco, con questa pubblicazione lineare, esaustiva e scorrevole, ha messo a disposizione uno strumento utile non solo per conoscere la poesia di origine giapponese ma anche per riflettere sul “qui e ora” della poesia italiana in tutte le sue forme, nonché dell’atto autoriale con tutte le sue insidie.

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