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L’Antifascismo (e non solo) spiegato a chi non c’era

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di Stefano Tamburini

Questo libro è come uno specchio che, pagina dopo pagina, offre il riflesso di tempi perduti, un po’ macchina del tempo e un po’ scossone alle coscienze di chi conosce almeno in parte la lezione della storia. E ancor più di chi l’ha scordata o, peggio ancora, non ci ha mai fatto i conti. Le parole di queste pagine sono avvolgenti, offrono in soffice successione immagini sconosciute che diventano familiari, fanno da ponte tra sogni e ricordi e ne confondono l’ordine nella memoria fino a farli diventare un tutt’uno con angosce e ambizioni dei tempi moderni. In certi momenti la lettura si trasforma in passione che travolge, è commozione che dilaga. Talvolta sfiora anche una giustificatissima rabbia per situazioni che vanno oltre le sofferenze che in altri contesti sono offerte da narrazioni più distaccate.

“Avere tutto ma non il domani” è qualcosa di più di un racconto storico, di un romanzo ispirato alla vita di un antenato. È qualcosa che riscopre le radici familiari che diventano fondamenta comuni della civiltà. Le storie che si intrecciano sono quelle di donne e uomini che ruotano intorno alla vita di Emilio Fanetti, “il contadino della Leccia”, orgogliosamente socialista e certo non per convenienza, come per tutti quelli che seguivano un ideale di libertà, di emancipazione, di diritti fondamentali. Lo spiega bene Andrea Fanetti, pronipote che onora la memoria di Emilio e di tanti socialisti come lui.

E, mi permetto di aggiungere, anche di quelli che combattevano seguendo altri ideali di giustizia sociale: anarchici, comunisti, cattolici che – come spiega il protagonista di questa storia – «hanno combattuto i nazifascisti come noi». Certo, emergono le diversità e anche le divergenze che allora resero ancora più facile l’ascesa al potere dei seguaci di Benito Mussolini. Di questo il protagonista se ne duole: «Queste differenze tra i lavoratori non sono fatte a caso, è una cosa voluta e studiata dai padroni, ma io spero che la forza dell’idea riesca a tenere insieme tanta gente diversa. Eppure sentire che una parte del mio partito non è ben vista dagli operai mi fa male, chi è socialista come fa a non andare d’accordo con chi lavora?».

Andrea Fanetti, in un altro passaggio, si sofferma sulla figura del protagonista e dà una spiegazione al significato migliore dell’“essere socialista”: «Al cuore dei suoi ragionamenti ci stavano sempre la dignità, il diritto a un benessere decente, il disprezzo verso un sistema dove c’era chi aveva troppo rispetto a loro che un tozzo di pane dovevano sudarselo lavorando tutto il giorno. Non era quella la società cui agognava, sosteneva che si doveva avere diritto all’istruzione, il diritto a essere curati, a guadagnare abbastanza per vivere. I riferimenti essenziali del suo dirsi socialista stavano tutti lì, in queste quattro o cinque cose».

Durante la lettura viene voglia di abbracciarlo forte questo personaggio che si è visto rubare gli anni migliori dalla guerra, dalla fame e dalla povertà. Lui, e tantissimi come lui.

Certo, Andrea Fanetti ha scelto la strada più complicata, quella del romanzo. Avrebbe potuto limitarsi a una semplice raccolta di documenti, oppure a un’analisi storica come ce ne sono tante. No, va oltre puntando al cuore di chi legge e prima ancora al proprio sentimento e all’orgoglio di rappresentare la continuità generazionale del lavoro cominciato da Emilio. E lo fa con parole semplici e così efficaci da riuscire a penetrare nell’animo del lettore. Ovviamente non tutti i particolari della narrazione saranno fedelissimi alla realtà. Ma, oltre a quel che è accaduto davvero, in questo libro potrete trovare ciò che comunque è possibile che sia avvenuto, nessuna aggiunta di comodo, nessuna forzatura narrativa.

Questa è una storia che attraversa due secoli, tra la fine dell’Ottocento e gran parte del Novecento. Sono anni bui, con due guerre, lutti, miseria, fame e sopraffazione. È una storia che ci aiuta a capire l’importanza di conquiste che oggi siamo abituati a dare per scontate ma che sono passate attraverso l’opera di tante persone come Emilio che hanno deciso di impegnarsi con tanto sacrificio durante un’esistenza di per sé già complicata, senza alcun agio o vantaggio. E ci aiuta a capire anche il senso positivo dell’appartenenza, che non è mai rinuncia a capire le ragioni degli altri.

Emergono le differenze ma vanno sempre di pari passo con il rispetto per la morte di un uomo come Pietro Gori che ha combattuto dalla parte degli ultimi su un fronte diverso ma in qualche modo al fianco di chi affrontava quei disagi con altri approcci. Di certo uno come Pietro Gori non poteva essere un avversario. I nemici veri in quei frangenti complicati sono altri. Nemici che diventano anche pericolosi quando sulla scena si affaccia il fascismo. Allora sì che diventa difficile essere “altro”. Qui c’è il racconto di un socialista che si sforza di scrivere sui giornali vicini al partito. Lo fa dalle campagne, dalle colline. E lo fa anche durante l’impegno nel bel mezzo di un periodo di presunta “vita migliore” nelle fabbriche di Piombino. Si accorge subito che quel che guadagna in più finisce per soddisfare le esigenze di chi affitta case che sono poco più che tuguri e di commercianti che sono quasi usurai. Che si aggiungono a padroni che sono più che aguzzini. C’è anche da far conto con le morti frequenti sulle linee di produzione, anche di ragazzi e ragazzini, perché il lavoro minorile purtroppo è la regola.

Quando perde la vita un ragazzo di 14 anni diventa difficile pensare al giorno dopo, immaginare di ricominciare a lavorare come se niente fosse. Eppure anche la morte in qualche modo diventa normalità, sia pure con tutto il ritegno e il disgusto che emerge dalle parole che l’autore utilizza con i toni giusti, in un saliscendi emozionale che finisce per rapire il lettore fino a farlo immedesimare nei protagonisti del romanzo. C’è una triste raccolta di soldi per aiutare la famiglia del defunto, c’è la disperazione di un altro lavoratore ragazzino che regala un senso di impotenza e un desiderio di ribellione che più avanti in qualche modo i lavoratori riusciranno anche a portare a compimento. Ma in quel momento la rassegnazione rischia di essere la più semplice scorciatoia.

Così come è difficile accettare le scene di due uomini che combattono per l’unico alloggio fatiscente rimasto per le loro famiglie e, poco prima di massacrarsi di botte, si abbracciano e si mettono a piangere mescolando la loro disperazione che poi sfocerà in un accordo per stare tutti insieme in quello che l’autore definirà un “contenitore di carne umana”. O, più avanti, un “contenitore di precarietà”.

Durante l’esperienza da operaio c’è anche l’impegno da consigliere comunale in anni difficili, dove nelle fabbriche si poteva essere licenziati dopo alcuni piccoli errori che non si potevano neanche spiegare, confutare. Andrea Fanetti non usa mai queste parole ma lo fa capire: era schiavitù mascherata da altro, era illusione allo stato puro che il protagonista della narrazione comprende ma fa fatica a confessare anche a sé stesso e poi ai familiari quando torna quasi da sconfitto a lavorare nei campi.

C’è anche una vena poetica nella narrazione, la definizione di “serpenti argentati” al posto dei tubi dei primi impianti geotermici. C’è la presa di coscienza dell’ingiustizia nel rapporto di inferiorità del bracciante nei confronti del fattore. E c’è la ricerca di un’esistenza migliore nei locali della sezione, nelle riunioni, nella lettura dell’Avanti! e degli altri giornali che si stampano in zona e che raccontano quelle lotte, mettono a confronto esperienze. Emilio Fanetti scrive sulla Fiamma ma non si firma, non per paura ma per l’orgoglio di non essere protagonista ma semplicemente partecipe. Non è un aspetto casuale, perché segna una linea di confine netta tra il “far parte di qualcosa” o voler essere invece in prima fila. Quando più avanti lo convinceranno a firmare gli articoli non lo farà mai con nome e cognome ma, più semplicemente, come “Il contadino della Leccia”. Un soprannome che potrebbe essere quello di tanti come lui, che hanno gli stessi sogni e vivono le medesime preoccupazioni.

Emilio è anche un mangia preti e certo non con pregiudizio. Con alcuni è anche in buoni rapporti ma a chi gli chiede perché ce l’abbia con loro lo spiega in modo semplice: «La politica è una cosa pratica, invece dare a d’intendere a dei poveri ignoranti che in cielo li protegge un Dio che non possono né vedere né toccare, è da disonesti!».

Ci sono gli anni della scissione tra socialisti e comunisti proprio mentre il fascismo va al potere. E ci sono le critiche feroci al regime, ci sono le botte rimediate dalle squadracce in quelli che sono veri e propri agguati da vigliacchi. Colpiscono nell’ombra, in gruppo senza farsi riconoscere e senza rivendicare. Sanno tutto delle parole dette durante le riunioni nella sezione del partito, hanno spie e oltre a picchiare fanno anche di peggio, segnalando ai nazisti le persone da deportare nei campi di sterminio. Ci sono parole dure verso la guerra che sulle colline si avverte molto poco negli effetti diretti ma che finisce soprattutto per “rapire” tantissimi giovani che vanno al fronte, molti dei quali non fanno ritorno. Convivere con i lutti – e prima ancora con l’assoluta mancanza di notizie, di certezze – diventa qualcosa di struggente, di inaccettabile ma viene vissuto con estrema dignità e con una convinzione: «Le parole possono più delle armi».

La narrazione è genuina, e non nasconde gli orrori. Così emerge anche la storia di Franco, un compagno di Emilio che dopo una riunione nella sezione di partito confessa – a lui e solo a lui – di aver sgozzato il fascista che aveva segnalato il nipote ai nazisti che deportavano quelli che erano scampati alla strage della Niccioleta. Aveva saputo che era finito in un campo di concentramento in Polonia e che era morto. Non era riuscito a tenere lontano il desiderio di vendetta e gli aveva raccontato il senso di liberazione mentre lo sgozzava e l’angoscia di vedere gli occhi di uomo che muore. Ritroverà quel compagno più avanti, in un altro paese, senza più tessera di partito ma con gli ideali intatti. E c’è una frase che segna più di ogni altra il senso di rispetto per quel partito e, di conseguenza, per la causa comune: «No, un assassino non deve essere tesserato per i socialisti». E anche questa è una piccola, grande lezione di rispetto per qualcosa che va oltre le aspettative personali, è il “collettivo” che viene prima di ogni altra esigenza. Certo, rivedere quell’omicidio con gli occhi dei giorni nostri può far pensare a qualcosa di profondamente sbagliato, di censurabile. L’autore non dà giudizi ma ci guida nei sentimenti di quell’uomo che uccide trascinato dalla disperazione più che dalla voglia di vendicarsi, o forse da tutte e due le cose insieme. È il modo migliore per rivedere l’intera storia con gli occhi di quei giorni. E non è cosa di poco conto.

Non ci sono giudizi ma ottimi spunti di riflessione anche su quella che viene definita un’amnistia sbagliata dopo la fine della guerra, con il fascismo finalmente sconfitto e messo nelle condizioni di non nuocere. La firma su quell’atto di governo è del ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, il capo dei comunisti, messa in relazione con un atteggiamento fin troppo remissivo da parte del socialista Pietro Nenni. Con gli occhi di oggi, quello che fece Togliatti in qualche modo si potrebbe legare all’atteggiamento che poi – mezzo secolo dopo – terrà Nelson Mandela una volta eletto presidente del Sudafrica nel post-Apartheid e dopo 27 anni di prigionia. Mandela porterà al governo i propri aguzzini e ai sostenitori del suo partito che si dimostreranno perplessi ripeterà a ogni riunione fino a convincerli: «Noi dobbiamo essere migliori di loro».

Anche l’operato di Togliatti, certamente condiviso con i leader delle altre forze di Liberazione nazionale, aveva sicuramente quello spirito. Ma le critiche di Emilio Fanetti nel cuore della narrazione hanno più che un senso, specialmente viste con gli occhi di oggi, con fin troppi eredi del fascismo che con quell’orrore si ostinano a non voler fare i conti fino ad arrivare addirittura a rivendicare l’orgoglio di quella che invece è una sciagurata e inaccettabile continuità.

C’è un passaggio che, pur contestualizzato in quegli anni, dovrebbe aprire le menti anche a quelli che sono pronti a minimizzare, a dire che oggi non rischiamo più niente: «Qui si tratta di fascismo! Il problema è che quelli SONO fascisti e non basta dire che SONO STATI fascisti! Perché quando uno va a picchiare un altro che conosce e gli fa bere l’olio di ricino o quando faceva il nome ai tedeschi di una persona con la quale giocava a carte la sera prima e la fa fucilare, non si dice mai è stato! Lo è e bisogna avere il cattivo dentro per aver fatto quelle cose! Sono imbestialito di quest’amnistia, di questo perdono che ha solo un senso politico, non la sopporto questa Italietta con la vocazione dei tarallucci e vino, che non si vergogna di cosa è stata, che fa continuare tutto come se nulla fosse e poi magari, se li ritroverà di nuovo fra i piedi questi qui».

Riassumendo, si può dire che allora i vincitori dimostrarono di essere migliori degli oppressori sconfitti. E che oggi fra quelli che avrebbero dovuto imparare la lezione – e cioè gli eredi del fascismo – c’è ancora chi non solo non l’ha capita ma in qualche modo rivendica la bontà di quell’operato.

Ma il crescendo narrativo non si ferma alle questioni politiche. Il racconto dell’emozione nel recarsi a votare per il referendum tra Repubblica e Monarchia va oltre l’orgoglio di chi in quel seggio si avvicina con il vestito della festa, entra da suddito ed esce da cittadino, guarda con soddisfazione e orgoglio la prima volta delle donne alle urne. E si rammarica per i troppi voti che sono andati alla Monarchia che, insieme con il fascismo, ha portato il Paese alla rovina.

Poi la storia va oltre. E così il rapporto con la vecchiaia e con la malattia diventa in qualche modo tenerezza e tiepida rassegnazione. Commuove il colloquio a ridosso della morte con il nipote che gli chiede dei suoi vecchi articoli pubblicati sulla Fiamma ed è struggente l’approccio con la bruschetta consumata quasi di nascosto insieme con un bicchiere di rosso, ben sapendo che si sarebbe trattato di una sorta di “ultimo desiderio”.

E, più di ogni altra, una frase pronunciata poco prima di andarsene racchiude il senso e il valore dell’esistenza di Emilio Fanetti: «So di essermi battuto in quello in cui credevo e questo mi dà un senso di leggerezza che supera di gran lunga la pesantezza del male che mi sta portando via».

Parole nobili che non vanno legate solo al protagonista di questo bel romanzo. Sono quelle di tanti, socialisti e di altre fedi politiche, che hanno combattuto per regalarci un mondo migliore. Oggi che quei diritti sono pesantemente minacciati, la lettura di “Avere tutto ma non il domani” dovrebbe farci recuperare quel senso di comunità e di giustizia sociale che in anni non troppo remoti permise a quelli come Emilio di conquistare ciò che ci hanno lasciato in eredità.

Lo dobbiamo anche a tutti quelli che sono venuti dopo e hanno portato avanti quegli ideali così diversi ma che seppero unirsi contro il male assoluto: prima la tirannia del lavoro in semischiavitù, poi il fascismo e la negazione dei diritti. Hanno pagato un duro prezzo e non possiamo permettere che il mondo migliore che hanno conquistato possa fare anche un solo passo indietro.

 

Stefano Tamburini, 63 anni, piombinese con metà radici elbane, è un giornalista e scrittore. È stato direttore di quotidiani locali (Corriere Romagna, la Città di Salerno, Il Tirreno) e di un’agenzia di stampa (Agenzia Giornali Locali del Gruppo Espresso). Con “Edizioni Il Foglio” ha pubblicato due libri dedicati allo sport come strumento di emancipazione sociale (“Il prezzo da pagare” e “Beati, dannati e sogni truccati”) e un romanzo-verità dal titolo “L’uomo e il mare” dedicato alla storia di un sub ucciso da uno squalo e dei tentativi (falliti) di fabbricare una verità alternativa altamente infamante.

 Avere tutto ma non il domani

Andrea Fanetti

Il foglio letterario, 2024

www.ilfoglioletterario.it

 

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