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Poesia

“La conta”, di Massimo Palma: la Parola più che mai necessaria

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di GISELLA BLANCO

Se “La poesia è la lingua materna del genere umano”, come scriveva Benedetto Croce, riprendendo, o parafrasando parzialmente, ciò che aveva detto J. G. Hamann, è anche quella lingua che, prima e meglio di altre, può ridare vita (e dignità) ai morti e alle storie dimenticate.

L’atto poetico di Massimo Palma non è solo memoriale o di denuncia: La conta (Edizioni Volatili, nella collana I cervi volanti di Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce, con disegni di quest’ultima) è una plaquette civile nel senso più ampio che si possa immaginare.

Il fatto di cronaca, preciso e circostanziato, è quello del delitto per “schiacciamento contro ogni spessore di ossa”, “perpetrato dal corpo di polizia” a danno di George Floyd, “alle venti del venti di maggio duemilaventi”, nelle “propaggini del lockdown”, a Minneapolis.

L’evento è pubblico (e dà luogo anche a una pubblicazione, in Italia, https://ilmanifesto.it/george-floyd-la-vita-e-la-morte-damerica), noto – ma non abbastanza-, documentato da videoriprese fatte dai passanti con i cellulari mentre l’uomo moriva. L’espediente che causa l’arresto di Floyd appare minimo, quasi pretestuoso, la reazione della polizia che lo bracca fino a causarne la morte è inspiegabile, violenta, cieca. Ricorda vicende simili e gravissime accadute in Italia.

“La lingua deve ancora in morte obbedire/restare ugualmente modesta/e comporre idiomi stranieri a quel peso che opprime/fingersi viva”: la lingua non comunicante, il colore della pelle che distingue, il potere che si impone per natura (ne parla magistralmente Simone Weil), il peso sociale che divide e schiaccia sono tutti sintomi di un corpo collettivo malato.

Un diario franto di tappe numerate, scandito da versi di differenti misure, lunghi come respiri spezzati (“i can’t breathe”, sussurra in un ultimo fiato la vittima, al presente, sempre al presente), riesce a ricomporre (e consegnare) le micro scene di una realtà tragica, inconcepibile, dietro la quale c’è molto di più di un caso sfortunato.

L’”l’aritmetica di un’apnea” sancisce lo iato tra le persone, tra la vita e la morte, quello stacco dal pensiero che domina i carnefici e che viene imposto alle vittime in un teatro corporeo che accomuna solo nella disfatta reciproca.

Il registro linguistico è piano, volutamente alleggerito da qualsiasi elemento inutile (talvolta viene eliso anche l’articolo, come ad accorciare le distanze sintattiche), sembra un flusso di coscienza che introduce brevi parti di discorso all’interno di una narrazione ampia, corale, rispettosamente dal di fuori che, però, prova a intercettare le sfaccettature più complesse di quelle interazioni sociali.

Non è la cronachistica disinvolta di Pagliarani, né quella polemica di Balestrini, non c’è l’approccio visionario di Bordini, non c’è l’ironia drammatica di Raboni o quella cinica e divertita di Giudici, eppure in questi versi ipermetri di Palma si possono percepire tutte queste fondamentali voci di sottofondo, senza però annacquare la sua cifra personale che va oltre il semplice riferimento ai fatti, formulando opinioni e posizioni personali chiare, argomentate attraverso suggestioni e impressioni molteplici, con i movimenti e le parole degli stessi personaggi coinvolti negli eventi.

Scrivere poesie dopo Auschwitz, in disaccordo al monito tonante di Adorno, è più che mai necessario, non solo perché Auschwitz continua a manifestarsi in molti modi e in ogni tempo, ma perché rielaborare i fatti storici attraverso un discorso contratto e per natura proteiforme, soggetto al silenzio e a molti silenzi, non può che sollecitare quel diritto al dubbio che, se da un lato avvicina ad ottiche decostruzionistiche, dall’altro risulta più che mai imprescindibile (anche per la sopravvivenza delle democrazie).

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