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Lo Zibaldone

Il silenzio e i suoi pensieri

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di Francesco Roat

Il silenzio negli anni duemila, in questa nostra realtà urbana invasa da ogni tipo di rumore, sembra essere davvero difficile da sperimentare a lungo. Per assaporarlo, i più ritengono che sia indispensabile isolarsi, appartarsi in un luogo lontano dalla moltitudine e dai suoi innumerevoli suoni. Ma la domanda da porsi sulla necessità di un ambito solitario ed all’insegna del silenzio è la seguente: un tale bisogno non risulta forse in contraddizione con la caratteristica precipua degli esseri umani quali animali sociali? Questo è l’interrogativo basilare che si pone Laurence Freeman nella sua prefazione ad un testo, il cui sottotitolo è già tutto un programma (provocatorio): L’esperienza dell’eremo nel nostro tempo.

La sua risposta però è un netto no, specie facendo riferimento agli eremiti dal passato ‒ tra cui cosiddetti padri (e madri) del deserto: asceti che dal III al VI secolo avevano abbandonato la vita sociale per ritirarsi appunto in un’area disabitata ‒, che spesso, dopo anni di vita solitaria, si dedicavano poi alla cura dei malati e/o a confortare i sofferenti. Non dimentichiamo, d’altronde, che il termine monaco deriva dal greco monachos, che non significa semplicemente solo/solitario, bensì in primo luogo uno o intero, cioè individuo completo ed autentico. Dunque capace di relazionarsi in modo positivo e donativo nei confronti altrui.

Ma nella modernità, era del disincanto, le attività contemplative sono state via via sempre più rigettate da uomini e donne; sostare abitualmente per un durevole periodo nel silenzio ha interessato sempre meno persino i monaci. Forse oggi, tuttavia, tempo di crisi, agitazione, inquietudine e conflitti, qualcosa sta cambiando e la prospettiva di abitare il silenzio torna a far presa: su alcuni, quantomeno. Ne sono testimonianza i nuovi eremiti che hanno scritto le pagine di questo libro tutto da meditare, costituito appunto dalle considerazioni di sei eremiti ed eremite dei giorni nostri che hanno accolto l’invito a raccontare la propria esperienza in occasione di un ciclo di incontri organizzato dal Centro di Meditazione Cristiana di Firenze.

La voce tra essi che maggiormente mi ha colpito (perché gli amanti del silenzio parlano, eccome, quando occorre farlo; ma badano ad astenersi dalle parole superflue e/o insignificanti) è stata quella di Antonella Lumini, che ha saputo creare un piccolo deserto nella sua casa, collocata in centro città. Dunque non è necessario andare in cima ad una montagna o in una selva per udire il silenzio: quello che si trova soprattutto già dentro di noi se solo ci disponiamo a prestargli ascolto. Qual è allora lo scopo perseguito da questa monaca laica? Antonella lo esprime con parole d’estrema chiarezza/bellezza: “favorire il contatto con il grande mistero a cui apparteniamo”. Per giungere a ciò occorre spogliarsi dell’inessenziale, affidarsi a qualcosa che è più grande di noi e a cui apparteniamo (a Dio o, se vogliamo, all’esistenza, alla natura), abbandonare egocentrismo, brame e pretese varie, nonché la velleità di ottenere dei risultati dal silenzio (che è il sistema migliore per non cavare un ragno dal buco).

È molto interessante pure la definizione che la nostra eremita ci fornisce del silenzio, chiamandolo un campo, nel senso in cui lo intendono i fisici, oppure una dimensione della coscienza. Rispetto a quest’ambito non ci si può limitare comunque a concetti e astrazioni, perché i discorsi teorici ci conducono poco lontano. “Per familiarizzare col silenzio” ‒ scrive Antonella ‒ “è importante sperimentarlo dal vivo. Quando lo troviamo lo riconosciamo perché ci appartiene, perché sempre presente nel profondo di noi stessi. Il silenzio non è mancanza di suono, è assenza di rumore. Propaga l’armonia dell’universo, la pace che scaturisce da un ordine perfetto. Una sospensione del tempo in cui non manca più nulla”.

Certo è più facile rimanere silenti nel bel mezzo della natura piuttosto che fra le bancarelle di un mercato, ma mi permetto di ricordare quanto ebbe a dire l’abate ed eremita Poemen a un suo discepolo in cerca di eremìa: “Non c’è più deserto, ormai. Va’ dunque in un luogo popoloso, nel mezzo della folla, restaci e conduci te stesso come un uomo che non esiste. Avrai così il sovrano riposo”. Conta assai poco pertanto il luogo dove ci troviamo per ritrovare nel nostro intimo il silenzio. Si tratta forse solo di attingere un po’ meno dall’esterno e cercare invece di farlo dall’interno. Si tratta di lasciarsi andare, di accogliere magnanimamente quanto accade. Si tratta di comprendere come: “Contemplare il visibile fa percepire l’invisibile”.

Occorre sostare, muti, senza aspettative di qualsivoglia genere; stare nel qui e ora: giusto dove ci troviamo, con aperta fiducia, poiché abbiamo a disposizione da vivere solo il presente, in quanto il passato non esiste più e il futuro ha ancora da giungere. Concluderei queste brevi note sui sentieri del silenzio, con una felice frase della compianta Adriana Zarri ‒ la quale condusse lunghi anni di vita eremitica ‒, citata verso la fine del libro: “Se c’è un’esperienza che mi ha segnata, in questi anni di eremo ‒ oltre alla solitudine, al silenzio, alla preghiera ‒ è uno stato di pacificazione, un pieno accordo con le cose, un’armonia profonda con la vita”.

AAVV – Il silenzio e i suoi sentieri. L’esperienza dell’eremo nel nostro tempo, a cura di Giovanni Giambalvo Dal Ben, Effatà Editrice, 2024, pp. 158, euro 16,00

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