Lo Zibaldone - Recensioni
Il Dono: Maria Domenica Lazzeri, Pino Loperfido e l’enigma del sacro
Le biografie più potenti non sono mai solo vite altrui. Sono, in fondo, specchi. Il Dono, il nuovo libro di Pino Loperfido (Edizioni del faro, pag. 350, € 19,50), si muove esattamente su questa soglia: tra il ritratto di una donna dimenticata dal tempo e l’eco personale di chi cerca, forse senza mai trovare, un senso nel mistero del vivere e del morire.
Chi era Maria Domenica Lazzeri? La storia, o quel poco che ne resta, è nota a chi si interessa di misticismo o di fenomeni religiosi ottocenteschi. Una giovane di Capriana, Trentino, costretta a letto per quattordici anni, priva di nutrimento e segnata dalle stigmate. Nessuna spiegazione medica convincente. Solo visite: medici, filosofi, devoti. Molti dei quali lasciavano Capriana più confusi di quando erano arrivati. Una vita che sembrava annullarsi nella sofferenza e che, proprio per questo, iniziava ad attrarre.
Nel 2023, Papa Francesco ne ha riconosciuto le “virtù eroiche”, dichiarandola Venerabile. Ma il libro di Loperfido non è agiografia. È qualcosa di molto più raro: un dialogo. Una scrittura che non pretende di “spiegare” Maria Domenica, ma che si lascia trascinare nella corrente del suo enigma.
Il Dono non è romanzo, non è saggio, non è memoir. È, piuttosto, un’opera ibrida, che assomiglia a quelle ricognizioni letterarie che oggi chiameremmo “autofiction”, ma che ha radici più profonde. Loperfido intreccia archivi e testimonianze, viaggi e appunti, con la fluidità di chi ha compreso che la forma deve restare aperta, porosa, in dialogo.
Il narratore – un sé che è anche scrittore, pellegrino, osservatore – si muove tra Capriana e New York, attraversando quasi due secoli. Ma l’unità non è cronologica, è emotiva. Ogni pagina è un frammento di riflessione, una soglia tra il vissuto e l’invisibile.
Loperfido adopera una vita per interrogare il senso stesso della narrazione. Chi racconta chi? È possibile restituire un’esperienza che ha trascinato fuori dai limiti del corpo e della ragione? Oppure la scrittura deve accontentarsi di girare intorno, come fanno i pellegrini attorno a una reliquia, sperando che qualcosa trasudi dal silenzio?
Il paesaggio gioca un ruolo fondamentale. Il Trentino che Loperfido descrive è gotico, arcaico, severo. Boschi, rocce, cimiteri. La natura non consola: testimonia. È il teatro immobile in cui il dramma si è consumato. Ma anche nella New York dei circoli trentini – gli emigrati, i figli della diaspora – la figura di Maria Domenica risuona. Non come nostalgia, ma come punto di contatto tra identità disperse e un’origine comune.
Questa doppia ambientazione – montagna e metropoli – è uno dei punti di forza del libro. A Capriana si cerca la verità tra i documenti; nel New Jersey, nelle parole dei compaesani. E in mezzo, il lettore, chiamato a domandarsi cosa significhi credere. Non tanto in Dio, quanto nella potenza dei segni.
Il cuore del libro, tuttavia, è Maria Domenica stessa. Una donna che, in un’epoca di silenzio femminile, è riuscita a imporsi attraverso il corpo. Le sue stigmate, la sua immobilità, diventano linguaggio. Contro ogni sistema patriarcale, contro ogni tentativo di relegarla nel folklore. La sua esistenza – marginale solo in apparenza – irrompe nella storia con la forza della testimonianza.
C’è una frase, nel libro, che sembra riassumere tutto: “Non c’era bisogno di parole. Il dono era lì, tra noi.” È un passaggio semplice, ma dice molto. Dice che il sacro, forse, non ha bisogno di spiegazioni. Ma chiede ascolto.
Il Dono è anche un libro che ci parla oggi. In un tempo che teme il dolore, Loperfido scrive della sofferenza non per compiacerla, ma per riconoscerla. In un mondo che celebra il corpo solo quando è sano, bello, efficiente, racconta un corpo che si fa veicolo dell’oltre.
E alla fine, questo libro non ci dice se Maria Domenica Lazzeri era una santa o una malata. Ci chiede qualcosa di più difficile: guardare, ascoltare, accettare l’enigma.
Come ogni vero libro, Il Dono non consola. Ma accompagna. E ci ricorda che alcune vite non finiscono. Continuano a parlarci. Anche quando non comprendiamo le loro parole.
(Squinzi)

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