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Gli occhi di un bambino sulla guerra: i ricordi del musicologo Eduardo Rescigno
Gli occhi dei bambini sono in grado di vedere le cose in modi del tutto inaspettati, di fissarle nella mente per poi, col tempo, rielaborarle e dare a quelle cose nuova vita. Fatti, avvenimenti, che diventano poi ricordi, rievocazioni. Così, a distanza di molti anni dalla sua infanzia, Eduardo Rescigno (classe 1930), autore del libro La famiglia R. Ricordi di un bambino in mezzo alla guerra, ci regala un ritratto inedito di Milano durante il fascismo, la guerra, l’occupazione e poi la nascita della Repubblica. Ci restituisce le sue memorie di bambino di otto, nove e dieci anni, appartenente a una famiglia antifascista. Frammenti di vita a scuola, in famiglia, i racconti delle amicizie, dei momenti di paura e di sofferenza ma anche di gioia durante uno dei periodi più difficili e dolorosi del nostro paese.
Nel breve estratto che vi proponiamo il ricordo di come sua madre iniziò l’attività di staffetta per aiutare ebrei e antifascisti a fuggire in Svizzera.
“Mia madre, al contrario, era tutt’altro che tranquilla. Dal 1942 mio fratello Aldo era in età di leva e né lui né mia madre potevano concepirne il coinvolgimento in una guerra detestata. Per cui si era nascosto in una cascina sperduta nei fitti boschi dell’alto Verbano. Era una scelta pericolosa, non tanto per il rischio di essere scoperto – quei luoghi erano davvero poco praticabili – quanto per il radicale mutamento d’ambiente e di vita. I contadini presso cui era alloggiato mangiavano esclusivamente polenta e lardo, e vivevano in totale isolamento. Per un diciottenne abituato alla vita di città doveva essere una scelta precaria, ma forse ne soffriva più mia madre che non lui. […] In modo del tutto improvvisato, e correndo grande pericolo, Aldo riuscì a entrare in Svizzera, ma venne subito rimandato indietro. La Confederazione accoglieva ebrei e militari renitenti alla leva, ma Aldo non si era mai presentato al distretto militare, e quindi non era nelle condizioni di essere accolto. Allora entrò in azione mio padre che, non so in qual modo – queste faccende non venivano discusse davanti a un bambino di una decina d’anni – trasformò mio fratello in un finto soldato della Repubblica Sociale Italiana (eravamo ormai alla fine del 1943) e, accompagnato da mia madre, raggiunse la Svizzera, dove venne internato.
Da quel momento per mia madre si aprì una nuova stagione. Approfittando dell’aspetto di signora elegante e del suo cognome tedesco, si impegnò a organizzare fughe in Svizzera di ebrei, di renitenti, di militari del regio esercito in fuga, di antifascisti.
Il punto di raccolta dei destinati alla fuga era l’appartamento di via Silvio Pellico, dove trascorrevano qualche giorno, in attesa del momento opportuno, quando gli spalloni alla frontiera segnalavano via libera – e non so in quale modo si mettessero in contatto con lei. In quel momento aveva inizio l’operazione più pericolosa: la mamma e l’uomo in fuga lasciavano la nostra casa e, in pieno giorno, raggiungevano a piedi la Stazione Nord, dove salivano su un treno che li avrebbe portati fino a Grandate, dove avveniva la consegna del fuggitivo agli uomini della frontiera. Dalla finestra guardavo la mamma allontanarsi, quasi sempre a braccetto con l’altra persona e, a seconda dell’età, parevano madre e figlio, o una coppia di tranquilli coniugi di mezza età a passeggio per Milano. In quei momenti, non ho mai pensato che avrei corso il rischio di non rivedere mai più la mamma; la tranquilla padronanza della situazione che in quei delicati momenti riusciva a sfoggiare, non poteva suscitare nient’altro che la certezza del suo ritorno.”
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