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Gli inascoltabili

Foto di Engin Akyurt – Pixabay License
Pubblichiamo in anteprima il racconto inedito di Jacopo Stante
Jacopo Stante – Gli inascoltabili
Alle persone che aggiungono senso all’umanità minacciata dal cambiamento climatico
«Ingegner Gregori, congratulazioni! Non è da tutti qui in azienda arrivare a una promozione così importante. Gestire l’ufficio di Bologna. Ma che onore! L’aspettano con ansia. Dopo anni di gestione sbagliata affidata all’ingegner Bellucci, finalmente vedremo la primavera dopo questo lungo inverno!» disse il Dottor Peluzzi. Non lo si vedeva mai in azienda.
Per Giovanni era andato tutto troppo veloce quella mattina. Da quando erano in smart working i tempi erano molto più lenti e Giovanni si era stupito che il capo l’avesse chiamato quella mattina per andare in ufficio dove erano ammessi solo i manager.
Era affaticato dall’aver corso per i corridoi dell’ufficio ancora chiuso al pubblico. In quell’atmosfera surreale post pandemia, non era più abituato neanche a indossare una cravatta che continuava ad allargare nervosamente, durante e dopo la notizia di trasferimento.
Bologna. Come l’avrebbe detto alla famiglia? Stranamente gli vennero in mente le partite di rugby di suo figlio Ernesto. A Bologna si giocava a rugby? C’era la squadra di junior? Pensò anche a sua figlia Benedetta. Come avrebbe fatto con le sue amiche? Parlava solo di loro. Erano le uniche domande che avrebbe voluto rivolgere al suo capo che lo guardava in attesa di una risposta non solo di consenso, ma di entusiasmo totale.
Giovanni balbettò una semi risposta: «Sì, ne devo parlare con la famiglia, ma Bologna? Credo possa funzionare!»
«La famiglia! Oh, caro Ingegner Gregori, lei è nel pieno della sua brillante carriera! La famiglia seguirà e anzi la ringrazierà!»
«Ci sono altre possibilità? Cioè anche qui a Milano c’è molto da fare.»
«Oh, certo, ma lei ha già dato tanto a questo ufficio. Dobbiamo ripartire! Sa, la nuova Italia! Abbiamo riorganizzato tutto l’organigramma per essere pronti a questa grande sfida.»
«Certo e ne sono contento, e non ne ho dubbi che sarà un successo, ma io qui ho in pedi ancora tanti progetti da finire, casomai a Bologna ci vado tra qualche anno quando per lo meno finiamo il progetto Zevolini.»
«Ecco appunto, il progetto Zevolini», continuò il capo, «quel progetto ha bisogno di una nuova spinta. Capisce?»
«No, non capisco gliene abbiamo date tante di spinte sa… sta funzionando.»
«Sì, ma funzionerà meglio. Ci sarà Martini alla guida del progetto.»
Giovanni si ritrovò a pensare quanto un cognome, un insieme di sette lettere, potesse dare senso a tutto un discorso, a tutto un piano. Anni di carriera e di lavoro buttati dalla finestra nel momento in cui il nome “Martini” era stato pronunciato. Martini, nipote del capo che fresco di studi strapagati dalla famiglia aveva cavalcato ogni passo di carriera in tempi brevissimi. Il rampollo aveva forse il suo nuovo progetto relativo al grattacielo con le piante per far foto e metterle su Insta. Era tutto chiaro. Gli anni di ingegneria di Giovanni non sarebbero valsi a niente rispetto al desiderio del rampollo sorridente della prima foto del suo nuovo appartamento.
«Ah, capisco.» disse Giovanni ingoiando tutto il senso di rabbia, avversione, incapacità. Doveva continuare a pagare anche le partite di rugby o chicchessia sport a Bologna. Aveva bisogno del rampollo e di suo nonno. Odiava ogni lettera del “capisco” perché in realtà non lo capiva. Non lo avrebbe mai voluto capire o meglio si era rassegnato a non capire.
Moscio, ripercorreva i corridoi vuoti di quell’ufficio post pandemico senza correre. Andamento lento, appoggiandosi a ogni muro ogni volta che pensava a come l’avrebbe detto in famiglia. Sapeva già che non aveva alternative. A cinquant’anni ci si adegua ai lavori e non si sceglie, era un ingegnere ambientale e la moglie gli diceva che doveva ringraziare Dio che avesse un lavoro relativamente buono in uno studio di consulenza ingegneristica. Tatiana, sua moglie, faceva la segretaria amministrativa in ufficio fuori Milano. Laureata in economia e commercio ringraziava Dio per il suo lavoro di ragioniera e per le canzoni di Bob Dylan. Giovanni amava ripetere la frase “C’è un’età in cui si devono lasciare i toys”.
Frustrati, sull’orlo della depressione, ma la loro vita funzionava a Milano. Avevano creato questo gruppo di genitori del club di rugby e nonostante il COVID le partite erano riprese. Addirittura, c’era l’idea di organizzare una pizza dal Babo, l’unico ristorante dotato di spazio fuori. Ernesto era contento. Benedetta un po’ meno. Iniziato il liceo aveva abbandonato la pallavolo che tanto l’aveva entusiasmata durante le medie. Era stato un maledetto commento delle sue amichette ignare, sulle sue gambe muscolose ad avere avuto la meglio sugli allenamenti. Da quel giorno la sua insicurezza adolescenziale aveva preso possesso di ogni pensiero. Tatiana aveva provato di tutto e spesso le cene si trasformavano in una partita di rugby tra la mamma e la figlia che continuava in camera matrimoniale quando Tatiana accusava Giovanni di non far niente, di non avere alcuna posizione, di pensare solo a se stesso.
Ora Giovanni era lì, all’undicesimo piano di quell’ufficio a pensare a sé e a farsi pena da solo. Pesantemente si diresse verso casa. Quel trasloco sarebbe successo in tempi rapidi, dato che il nonnino aveva tutto l’interesse a rimpiazzarlo con il suo rampollo.
***
E aveva ragione. Il trasloco avvenne in tempi così rapidi che tutti i piani di far fare un atterraggio leggero a Ernesto e Benedetta non riuscirono affatto. Tatiana non gli aveva perdonato niente durante quei tre mesi di ricerca di un nuovo appartamento a Bologna e di abbandono di tutto quello che, frustrati o meno, avevano costruito a Milano.
Gli aveva urlato che era un incapace, un debole, che avrebbe dovuto alzare la voce con il capo, che era sempre così e che era meglio ci avesse parlato direttamente lei. Più la lista delle cose da fare cresceva, più gli urli in famiglia aumentavano. Giovanni aveva deciso che sentendosi il colpevole di questo subbuglio, non avrebbe cercato di negoziare un po’ di pace. Doveva mantenere una parvenza di sicurezza che le cose sarebbero andate bene. La bandiera “andrà tutto bene” disegnata da Ernesto durante la pandemia e lasciata sul balcone a sbiadire al sole continuava a rappresentare l’unico punto fermo per lui. La guardava, l’ammirava come se tutta l’energia positiva del mondo si fosse concentrata su quella bandiera. Lo aveva detto solo a Ernesto che se la bandiera diceva che sarebbe andato tutto bene non poteva che essere così. La Santa Bandiera.
Il giorno dei saluti in ufficio, sia per lui che per Tatiana, così come il saluto alla squadra di rugby e i pianti di Benedetta nel salutare gli amici arrivarono così velocemente che Giovanni pensò di stare guardando un film.
Quando furono pronti in macchina per partire, Giovanni diede a tutti una parola di speranza: «Torneremo, abbiamo una casa qui, prima o poi gli affittuari andranno via e torneremo qui. Partiamo per un’avventura!»
Guardò Benedetta dallo specchietto retrovisore e il suo sguardo perso nel finestrino, Tatiana era impegnata con il gps, e solo Ernesto osò una risposta: «Le avventure sono piene di novità in fondo, chissà chi e cosa incontreremo.»
«Grazie Ernesto! Esatto, forza famiglia, torneremo a Milano dopo la nostra avventura!»
«Ok Giovanni», rispose Tatiana con il solito tono duro. «Cerchiamo di arrivarci a Bologna che di ’sto passo ci chiude l’agenzia; poi con tutto quello che abbiamo speso non possiamo certo permetterci la notte in albergo!»
«Sì l’ufficio è stato terribile, almeno una settimana in albergo ce la poteva pagare!»
«Se è per questo sono stati terribili in tutto, ma ormai siamo in ballo e balliamo.»
«Benedetta tu cosa dici?»
Fece un cenno di assenso distratto.
Non era la prima volta che rimaneva in silenzio quando non era affatto d’accordo su una situazione o una conversazione.
Tatiana provò ad alleggerire l’umore della figlia: «Dai, che grazie ai social vi continuerete a sentire con Samantha e Paola. Con tutto il cuore, so che è dura lasciare gli amici, ma non è così. In fondo li puoi sentire anche oggi. Milano e Bologna sono così vicine che se fai la brava qualche weekend puoi pure venire ad andare da Paola. Parlo io con Margherita.”
«Non è la stessa cosa», accennò Benedetta.
«Suvvia!»
Arrivarono a Bologna che era sera, la tipa dell’agenzia li aveva accolti in malo modo per il ritardo e sarà stata la stizza della signora o il fatto che fosse sera o la luce al neon della cucina, ma l’appartamento che era sembrato eccellente come descritto, era a malapena passabile.
«Mamma, che cos’è quest’odore?» chiese Benedetta ad alta voce, come svegliata dal torpore del viaggio di andata.
«Tesoro non lo so. Signora, c’è per caso un bagno che non funziona? No, perché c’è puzza di muffa.»
«Manderemo qualcuno domani. Se foste arrivati in orario probabilmente avrei potuto chiamare qualcuno. Per ora vi suggerisco di aprire la finestra del bagno e aspettare domani.»
«Cara signora, siamo a gennaio, ma faremo come dice lei. Capisce che non è proprio ammissibile affittare una casa con questo odore. Comunque, domani pretendo che qualcuno venga di prima mattina.»
Giovanni guardò la scena in uno stato di semi-paralisi. Sentiva semplicemente che ogni aspetto di questa storia, incluso quel maledetto scarico o chissà cosa del bagno, fosse la riprova di aver fatto un errore. Avrebbe dovuto alzare la voce, avrebbe dovuto dire qualcosa.
Tatiana lo guardò senza pietà e con tono greve sussurrò: «Del senno di poi sono piene le fosse!» dirigendosi verso la macchina. «Andiamo a scaricare i bagagli. Cucineremo qualcosa e viva Bologna!»
***
Nei giorni seguenti sembrò che la famiglia Gregori fosse parte di un reality, di quelli che non fanno audience, dove il pubblico ingurgita patatine e ketchup ridendo delle sventure altrui.
Sembrava che gennaio fosse il mese dannato per tutto. Tutto era già cominciato o già finito. Erano nel bel mezzo dell’anno scolastico. Benedetta era stata iscritta al terzo anno di liceo ed Ernesto alla seconda media. Gli amici erano già formati, i gruppetti già consolidati e a gennaio rimanevano i rimasugli di coloro che da settembre non si erano riusciti a inserire. A quelli loro si erano rivolti bisognosi: i secchioni, i somari o gli strani, che avrebbero dovuto dar senso a questa loro vita di passaggio. Gli insegnanti mal pagati avevano fatto un cenno di accoglienza all’inizio, ma non potevano permettersi di prendersi il peso psicologico di una sedicenne che aveva cambiato scuola e città. L’unico bagliore per Ernesto era che l’insegnante di educazione fisica adorasse il rugby e conoscesse la squadra di Milano da dove Ernesto arrivava. Una luce, una speranza. Ernesto andava in giro tra i corridoi di quella nuova scuola con quel trofeo. Lui apparteneva a qualcosa, veniva da una squadra e quello era. Spavaldamente ogni ricreazione riportava il discorso sul rugby e su quanto forte fosse la sua squadra.
Tatiana aveva speso le sue prime settimane a litigare con l’agenzia. Giovanni era impegnato a tentare di avere un ruolo, a divenire rilevante nella nuova azienda e a non essere considerato il rimasuglio venuto dall’ufficio di Milano.
Poi c’era Benedetta. Nessuno sembrava far caso al suo mutismo. Nel via vai delle faccende dell’inserimento familiare, continuava a postare foto indecifrabili su “Insta” come un punto interrogativo su uno sfondo nero, un video di un martello pneumatico, un gabbiano in gabbia, una torta bucata nel centro e di solito la musica di sottofondo era trash, senza melodia. Era diventata estremamente attaccata ai messaggi WhatsApp con Letizia, la sua amica di sempre.
“Qui continua ad essere una palla Leti”
“Ma dove sei?”
“Come dove? A scuola, ma è una palla. Non mi piace nessuno”
“Vabbè dai almeno puoi usare il telefonino a ricreazione come da noi”
“Figurati che gioia!”
“Ma quello di cui mi parlavi… aspe, come si chiama?”
“Indifferente, si chiama indifferente. Come tutto qui, come i muri e i portici di questa città”
“Mhmm. Vabbè se già mi parli di portici ti sei inserita”
“Ma inserita di che? Voglio tornare a casa e basta, ma per il nostro weekend ci manca ancora un mese cavolo. Credo mi debba trovare un lavoro in qualche bar, almeno i soldi me li gestisco io, e posso tornare a Milano quando mi pare”
“E allora vai, ti ricordi quel pub che ti diceva Paolo?”
“Chiuso. Tutto chiuso, maledetto COVID. Poi c’è disoccupazione, figurati se prendono una sedicenne a lavorare, quando ci sono padri di famiglia a fare la fila. Che palle Letizia! Sono in gabbia”
“Ma no dai, non la vedere così nera”
“Ma Steve ha chiesto di me?”
“Ehm, non proprio…”
“Letizia, cosa non mi stai dicendo?”
“Dai Benedetta, perché te lo devo dire proprio io?”
“Ti prego no…”
“È uscita dal nulla”
“Ma chi è?”
“Ilaria”
“Ma come… come?! Ma a lui non stava neanche simpatica. Ma perché? Ma come, quando è successo e non me lo hai detto? Maledetto, è per questo che non risponde più ai messaggi.”
“Sì ma non ne fare una tragedia”
“Come faccio a non farne una tragedia, non è neanche un mese che sono qua. Ok Letizia meglio che vada”
“Dai Benedetta…”
Era già andata via. Non sapeva dove rigirarsi. Non sapeva come sopportare quel senso di vuoto che la portava alla nausea. Guardò il cielo. Le era rimasto solo quello. Vagava per i portici e non voleva tornare a casa perché quella era casa. Non voleva andare dalla mamma perché le avrebbe parlato dei problemi dell’agenzia, per rimanere in quel posto che le sembrava così sconosciuto. Chiamare il su adorato papà? Non lo voleva disturbare. Lo vedeva così preso a cercare di far funzionare tutto che non le sembrava giusto dargli il peso del suo fallimento affettivo. Steve era l’unico che l’aveva capita. Adesso, solo il nome era un pugno per lei. Doveva andare da lui.
Vide il segnale “Stazione”. Certo, la stazione. Lì avrebbe preso un treno, sarebbe arrivata a Milano la sera, andata da Steve, lui avrebbe cambiato idea, sarebbero stati insieme per l’eternità. Quella Ilaria era nulla. Anzi, era il modo per farlo accorgere del fatto che lui amava solo la sua Benedetta. Sì, lei era la sua Benedetta. Nessun’altra. Non pensava. L’unica soluzione era il treno. Avrebbe poi spiegato tutto alla mamma, al papà, ma lei quella sera doveva andare a Milano. Camminava veloce. Continuava a chiamare il telefono di Steve per dargli la notizia che lei c’era, che stava tornando, che non era successo niente. Lui non rispondeva.
“Sto prendendo un treno per tornare a Milano. Mi manchi. Ci vediamo appena capisco a che ora arrivo.”
Scrisse il messaggio e vide che erano disponibili due “v”. Aveva letto il messaggio. E allora perché non rispondeva? Perché?
Non fermava i pensieri. Lui non rispondeva. Cominciò a piangere. Piangeva e camminava, ma lui non rispondeva a niente. Perché? Come? Benedetta guardava il cielo e piangeva, era stata tradita da tutti. Da tutti. Andò al Bar della stazione. Ordinò un alcolico. Cosa che non aveva mai fatto.
L’aveva visto fare in TV. Forse era così che funzionava. Entrò al supermercato della stazione e comprò tre birre. Si sedette vicino alla stazione. Lì nascosta, ma da dove poteva vedere i treni diretti a Milano. Beveva un sorso ogni volta che un treno passava. Un’opportunità persa. La prima birra finì così tra Intercity e regionali che sfrecciavano o si fermavano. Piangeva. Per tutto, perché a sedici anni si sentiva sola. La seconda birra continuava a scendere. Le faceva male, non le piaceva niente di quel sapore, ma i film dicevano che era la soluzione, la via d’uscita. Alla terza birra si sentì così male che vomitò tutto.
Poco distante c’era Pietro, un ragazzo magro, al massimo sulla ventina, che bazzicava in stazione: aveva jeans sporchi e una borsa a tracolla che aveva lasciato il segno sulla T-Shirt. Si avvicinò per aiutarla e le porse dell’acqua.
«Ehi sei nuova qui non ti ho mai vista.»
«Cosa?» Benedetta lo guardò con sguardo perso.
«Sì, qui ci conosciamo un po’ tutti e a te non ti ho mai vista. Tieni, troppe birre fanno quest’effetto. Prendi l’acqua.»
Benedetta prese la bottiglietta di acqua tra le mani.
«Non credo San Benedetto mi possa aiutare…»
«Forse no, ma in questa stazione credono solo a lui.»
Benedetta suo malgrado sorrise.
«Ah, bene. E che si fa da queste parti?»
«Si vedono treni e gente passare», rispose Pietro.
«Sto male, voglio tornare a casa.»
«Che autobus prendi?»
«Lascia perdere, non ti conosco. Voglio andare.»
«E vai. Figurati se ti blocco. Ma quando vuoi vieni qui e troverai sempre San Benedetto.»
Benedetta rise, stranamente quel ragazzo mal messo era riuscito a dimostrarle il gesto più vero da quando era arrivata. Prese l’autobus bevendo l’acqua offertale da quello strano ragazzo. Poi la usò per bagnarsi il viso, e rimettersi un po’ a posto prima di tornare a casa.
Era sera. La mamma dalla cucina la salutò mentre era al telefono. Benedetta riuscì a nascondersi in camera dove nessuno avrebbe potuto ascoltarla.
Perché la sua giornata era stata inascoltabile e il suo silenzio anche; così come il suo urlo di richiesta di attenzione.
***
Sempre più depressa, Benedetta si trascinava tra ore di latino e matematica. In fondo, qualche interesse lo aveva per quelle materie. Una di quelle che l’affascinava di più era la Biologia. I sistemi di cellule che si alternano come in una danza cosmica, il dna, la fotosintesi, la intrattenevano come il più bel film che potesse vedere, dove non solo le storie hanno un lieto fine, ma il loro potere era così grande da cambiarne anche l’inizio.
La nuova insegnante aveva notato la svogliatezza della ragazza venuta da Milano, ma se tutti gli altri docenti scuotevano la testa, ogni volta che si parlava di lei, era stata favorevolmente impressionata dalla risposta datale da Benedetta alla domanda: «Cosa vi piace di più in assoluto delle cellule?»
Benedetta aveva risposto: «Il fatto che si possano trasformare, che niente sia definito, che si adattino a ogni cambiamento, negativo e positivo che sia.»
«Brava!» aveva urlato la professoressa davanti alla classe.
Quel “brava” aveva toccato le corde interne della ragazza fino a farla arrossire. Aveva raggiunto il fazzoletto nella borsa e involontariamente aveva toccato la bottiglietta di plastica di acqua San Benedetto rimasta in borsa, ormai da troppo tempo, dato che continuava a riciclarla da più di un mese orami. Tra sé pensò: “San Benedetto sarà contento di me oggi, per la prima volta.”
L’urlo della professoressa lungimirante era però sopraffatto dal silenzio degli adulti della sua famiglia, e dalla disapprovazione dei suoi altri insegnanti.
Le sue scappatelle da Pietro, a vedere i treni e le persone passare, erano aumentate da una a tre volte alla settimana. L’acqua per rinfrescare il viso non riusciva sempre a coprire gli effetti di quei pomeriggi, Benedetta dormiva sempre peggio e in classe spesso combatteva con il sonno e con l’isolamento che a quel punto in quella città solo Pietro sembrava coprire.
Giovanni era stato il primo a notare questo atteggiamento della figlia.
«Tatiana, ma cosa ha Benedetta?» aveva chiesto alla moglie una sera in cui era tornato prima a casa.
«Problemi adolescenziali. Dice che ha il ciclo, le fa tanto male e non vuole mangiare.»
«Sì, ho capito, ma non ce l’aveva già due settimane fa? Non è venuta a cena per lo stesso motivo.»
«Sarà il pre. Comunque, fisso un appuntamento dal medico. Alla Asl mi stanno facendo aspettare così tanto per il medico di base. E senza manco le analisi possiamo fare.»
«Ok aspettiamo ma parlaci, non mi sembra che le cose stiano andando bene per lei. Non lo so…»
«Senti Giovanni, qui ognuno di noi sta combattendo la propria battaglia, se ci fossero veri casini gli insegnanti ci chiamerebbero; lo sai che è successo due anni fa quando le sono stata addosso, mi ha brutalmente rifiutata e non posso pensare di passare ancora per quell’incubo.»
«Sì ho capito, ma non la vedo bene.»
«Vabbè guarda, parlaci tu e poi vediamo.»
Il giorno dopo passò senza che parlasse con sua figlia. Lo avrebbe fatto nel week end.
Finalmente il fine settimana arrivò. C’era la prima partita di Ernesto. Tutta la famiglia era concentrata a fare bella figura con i genitori del club.
Tatiana aveva studiato il vestito a perfezione, voleva apparire di aperte vedute, pronta a mettersi in gioco sempre e comunque. Ogni accessorio aveva una sua funzione precisa nel mostrare questa idea. Giovanni voleva apparire come il padre presente, attento e mentre era in macchina si ripeteva le fasi della breve carriera di Ernesto e si concentrava su come si dovesse presentare.
«Benedetta, mi raccomando cerca di sorridere oggi, prova a mettere il muso da parte. Poi io e te dobbiamo parlare, non mi piaci in questi giorni, passi troppo tempo in stanza. Ma come sta andando la scuola? Hai legato con qualche amica?»
«Sì, bene…»
«Benedetta! Dai rispondi un po’ meglio a papà siamo molto preoccupati per te. Tutto qua. Lo sai che ti vogliamo bene no stellina?» la esortò sua madre.
«Sì, lo so…»
«Allora hai nuovi amici?»
«No.»
«Perché no? Vogliamo organizzare una bella festa a casa?»
«Mi sembra un’ottima idea. Anche il prossimo week-end. Dai, la organizzo io. Oggi chiederò l’e-mail a tutti questi genitori così ne approfittiamo per farci dei nuovi amici.»
«Non vi azzardate a invitare i miei compagni di scuola.» tagliò corto Benedetta.
«Ok, ora parcheggiamo e ne riparliamo, ma io l’e-mail oggi la chiedo.»
Si stavano dirigendo al campo, nella periferia della città, quando un ragazzo malmesso, con la giacca dismessa e lo zaino a tracolla, urlò in lontananza verso Benedetta: «Ehi tu! Ciao, sei l’amica di Pietro?»
Benedetta cominciò a camminare più veloce. Non avrebbe mai voluto che i genitori venissero a conoscenza di quel mondo “sbagliato”.
Tatiana chiese: «Benedetta, ma quello parla con te? Chi è Pietro?»
«Ignoralo mamma è un pazzo di scuola, lascia perdere.»
«Ma a scuola tu conosci questi? È chiaramente uno sbandato. Bisogna dirlo al preside! Io ho paura!» si innervosì Giovanni.
«Lascia perdere papà.»
Ma il tipo insisteva a urlare a distanza: «Ehi vieni qui a farti una birra o ci vediamo in stazione dopo?»
«Benedetta ma che sta dicendo?»
«Lascia perdere papà te l’ho detto è un pazzo!»
Ormai erano quasi vicini al campo. Ernesto era entusiasta, e già si era lanciato a giocare. Tatiana ancora sconvolta per quell’incontro, ci aveva messo un po’ a riprendere la posa della donna di classe. Giovanni aveva un terribile sesto senso. Aveva sentito forte l’odore del fallimento. Quello che lo aveva bloccato prima. Perché quel tipo aveva parlato di birra e stazione? Se era un amico di scuola, cosa c’entrava la stazione? Non riusciva a levarsi quelle parole dalla testa. I genitori si avvicinarono contenti di conoscere i nuovi membri del club venuti da Milano. Giovanni non riusciva a rispondere.
«Che bello conoscervi, sappiamo che Ernesto ha già giocato prima.»
Giovanni che aveva preparato la riposta da giorni si trovò a dire a bassa voce: «Sì ok, ma sono piccoli, stanno tutti qui per imparare.»
I genitori, che avevano dei propri figli l’immagine di campioni e talenti da Senior League, non volevano certo adeguarsi alla risposta minimizzante di questo nuovo genitore che li vedeva come bambini che si divertivano a lanciare una palla.
La conversazione finì ancora prima di cominciare.
«Benedetta, perché quel ragazzo ha parlato di birra? Ma tu passi il tempo in stazione?» chiese preoccupato.
«Ma figurati papà! Mi hai sempre detto che devo stare attenta!»
«Mi raccomando, io non posso sempre controllare dove vai.»
Benedetta avrebbe voluto urlare al padre: Perché no? Perché non poteva controllarla, andare con lei, girare per le strade di questa Bologna sconosciuta. Perché pensava che fosse già grande? Perché non poteva essere ascoltata? Nel mondo degli inascoltabili tutti erano esposti a cose inenarrabili. Lì nel mondo degli inascoltabili i ragazzi hanno ancora paura del buio.
***
Giovanni non aveva dormito. Era andato in camera di Benedetta e preso di nascosto il suo telefonino. Condividevano la password con la promessa che non l’avrebbe mai data alla madre.
A parte i mille messaggi senza risposta all’amica che la cercava, non c’era molto; sembrava come se Benedetta non conversasse con nessuno. Eppure, c’erano due foto di treni in passaggio. Furono quelle foto a far scattare la convinzione che lui il giorno dopo l’avrebbe seguita.
La mattina arrivò, Benedetta aveva stancamente fatto colazione: quella mattina non era più l’inascoltabile, ma la controllata, senza saperlo.
Giovanni aveva accennato a Tatiana che qualcosa non andava che aveva intenzione di seguire la figlia.
«E come fai con il lavoro?»
«È questo il mio lavoro, devo capire se Benedetta è al sicuro.»
Doveva stare davanti a scuola alle tre in punto. Sembrava come se gli astri si fossero allineati.
Aveva parcheggiato a pochi passi dall’entrata e poteva vedere l’entrata della scuola dallo specchio retrovisore. Non credette ai suoi occhi quando lì fuori seduta sulle scale vide, la famosa amica di Benedetta che aspettava pazientemente. Conosceva bene i genitori della ragazza, il prossimo passo sarebbe stato quello di chiamarli ma non lo fece.
Benedetta uscì e quando la vide anche lei non credette ai suoi occhi. Le due ragazze si abbracciarono e fu evidente a Giovanni che quella era stata una visita inaspettata.
Letizia continuava a parlarle mentre l’altra piangeva e rideva. Giovanni ringraziò il cielo per quella scena dato che non la vedeva ridere da così tanto tempo. Decise di continuare a seguirle.
Salirono su un autobus che si dirigeva verso la stazione. Sì, la stazione, fonte delle sue preoccupazioni più nere. Non capiva. Perché andavano lì? L’unica spiegazione che si poteva dare era che Letizia dovesse ripartire per Milano.
Cautamente parcheggiò in una strada secondaria. La stazione era affollatissima. C’erano ragazzi con bandiere e striscioni pronti a manifestare contro il cambiamento climatico. Parlavano di salvare il pianeta ORA. Una folla inaspettata, rispetto a ciò che aveva immaginato la notte prima. Un viavai di tamburi, visi giovani dipinti con il mondo, con i cuori, con arcobaleni. Una cascata di bellezza e di energia che non vedeva da tempo. Come se quei ragazzi, che parlavano di ambiente e speranza, gli stessero sciogliendo la pietra dentro, sgretolando le difese e facendogli vedere che in fondo è possibile. Letizia faceva chiaramente parte di quel gruppo. Tutti sembravano aver accolto Benedetta. Una aveva urlato: «Ehi c’è l’amica di Letizia, la futura biologa!»
Benedetta sorrideva, era felice. Le misero intorno al collo una bandiera con scritto Peace & Love & Planet.
Giovanni notò che la figlia continuava a lanciare sguardi a un gruppo di ragazzi sopra una cunetta. Uno con una bottiglia in mano di acqua San Benedetto alzò la mano in segno di brindisi. Quei ragazzi erano chiaramente degli “sperduti”. Giovanni pensò che non avrebbe mai voluto vedere Benedetta o Ernesto far parte di quel gruppo.
Per fortuna che lei aveva buoni amici come Letizia…
EPILOGO
Era ormai un anno che vivevano a Bologna. Giovanni aveva cambiato lavoro. Aveva sfruttato il fatto che dopo la pandemia tutti erano più aperti allo smart working. Aveva lasciato l’Impero al suo destino. Voleva dare più spazio a Tatiana che nel frattempo aveva trovato un lavoro come supplente in una scuola di periferia. Sognava che un giorno sarebbe diventata insegnante a tempo pieno. Giovanni lavorava molto da casa e aveva imparato a cucinare piatti vegetariani per far felice Benedetta
Ernesto continuava crescere e a giocare a rugby.
Benedetta era stata accolta da questo gruppo di attivisti del clima. Andava spesso a Milano e non mancava mai di sedersi per qualche minuto con i suoi amici della stazione, ma solo bevendo dell’acqua come aveva promesso al papà. Pietro era diventato un ascoltato e i genitori si erano trasferiti fuori da Bologna per ricostruire la vita con il figlio. Aveva promesso a Benedetta che appena finito il cammino di recupero avrebbe anche lui partecipato agli incontri dei giovani che parlano di cambiamento climatico. Li accomunava la foto di WhatsApp, per cui entrambi ricevevano critiche perché sembrava volessero fare pubblicità all’acqua minerale ritratta nella foto. Entrambi avevano deciso di intitolare il loro gruppo “Acqua e Alternativa.”
Entrambi si sentirono finalmente degli ascoltati.

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