Poesia
Gianni Ruscio, L’ottavo giorno
L’operazione intellettuale che si svolge tra i versi in esame è una transumanza psichica e filosofica dall’io fintamente individuato al non-io talmente dilatato e disidentificato, nel possibilismo della “lacerazione del limite”, da riuscire a concepire “l’estraneo parallelo che ci abita” fino all’immedesimazione panica e mistica con il necessario plurale del sé: “Ogni io è un altro Dio:/ma siamo tutti la stessa cosa”. Il percorso cronologico ed emotivo dal primo al settimo giorno è una rivolta ascensionale a ritroso che sonda le dicotomie più sofferte dell’esistenza per giungere al nucleo originario e primordiale della personalità all’ottavo giorno, epifania dell’astrazione sacra e sacralizzante dell’antitesi irrisolta tra viscere del linguaggio e verbo del corpo: “Respiriamo sette volte e che l’ottava/sia il fumo delle interiora/l’inalazione delle cartilagini/il liquore della bocca regalato/dalla madre”. Si assiste al prodigio fideistico di “un corpo fuori dal corpo” che nell’infermità materiale e spirituale sancisce la “caduta in un’orma” della legge soprannaturale fino alla possibilità di riesumazione dell’infinito universale dalla “profondità del sepolcro”, nuovo ventre materno in cui l’uomo contemporaneo è chiamato a rinascere. L’utilizzo di metafore, allitterazioni, ossimori, sinestesie e un cuore come “terzina divina” risponde alla vocazione di mantenere separate “le sillabe della pelle,/nella tragedia/dell’aspettare il dopo”, estenuante attesa di un “prima di noi” che recupera il “gioco di fede” restituendo all’individuo l’ambigua dimestichezza alla coscienza che, per avventura, diventa conoscenza. Una tensione ironicamente medicalizzante scandisce l’umana brama di controllo (“Volevamo abbracciare la diagnosi/che pendeva su di noi”) ma l’onnipotenza, si sa, fallisce nel suo strenuo mettersi alla prova e ritorna a noi nascostamente per la via del più fragile abbandonarsi. Il penultimo giorno appare come liturgia della fine e dell’insignificanza ed è l’esercizio necessario di contrizione e di rabbia che serve per varcare la soglia metafisica della fine, “ottavo giorno” in cui si compie la frantumazione dell’unicità individuale nella moltiplicazione ontologica del sé. “Ma non era: io”, era ciascuno in uno e l’uno in ognuno, per il tramite della poesia che non dice ma ricrea.
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