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Eclissi di un’infanzia

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di Francesco Roat

Le crepe del paradiso, del narratore e saggista Roberto Caracci, è un intenso Bildungsroman, un romanzo di formazione nel senso etimologico-letterario del termine, il quale ‒ come ebbe a notare Goethe ‒ contiene la parola Bild (immagine), risalente alla radice germanica bil, che fa riferimento ad un potere miracoloso: la magia propria dell’immaginario, caratteristica precipua d’una prosa suggestiva/evocativa ossia giusto quella peculiare del romanzo di formazione ideale. Avvalendosi delle inedite immagini che l’autore riesce a creare e proporre ai lettori, è altresì possibile alludere poieticamente alla trasformazione, che è il cuore del Bildungsroman, incentrato ‒ come sempre è ‒ sulle metamorfosi (spesso dolorose ma necessarie) del protagonista, che dall’infanzia o dalla giovinezza lo conducono all’età adulta.

È quanto riesce magistralmente a fare Caracci in questo suo testo davvero magico, in grado di farci partecipi della sofferta crescita del fanciullo Alessio e del laborioso passaggio da un’infanzia all’insegna della credulità ingenua ‒ in un paradiso che fin troppo presto gli parrà deturpato da irreparabili crepe ‒ fino al disincanto d’una adolescenza già sin troppo matura. Va puntualizzato inoltre che questo romanzo è una persistente riflessione sull’umana finitudine, sulla morte e sui vari modi con cui ci si può misurare rispetto ad essa: magari tentando di esorcizzarla tramite improbabili aspettative paradisiache, come fa il deuteragonista di questo Bildungsroman, il prete don Luciano: figura esemplare d’ingannatore e d’ingannato, di manipolatore e di manipolato per via d’una vocazione/professione sacerdotale fanatica, dogmatica ed inautentica che egli stesso finirà poi per rigettare.

Siamo negli anni sessanta. Alessio, educato da una madre cattolicissima, nonché chierichetto di belle speranze costantemente incline a confessioni, devozioni e “fioretti”, attraversa un’infanzia anche troppo seriosa, dove: “Tutto era dovere, debito nei confronti della vita, responsabilità”. Egli cerca di svolgere al meglio il suo compito coadiuvando don Luciano tra messe, estreme unzioni, aspersioni d’incenso e funerali; però qualcosa inizia a incrinare le sue certezze puerili nella verità/bontà di catechismi e messali, ma soprattutto nell’immortalità ultramondana a cui gli uomini in grazia di Dio sarebbero destinati. Ed è il decesso improvviso/inatteso d’un ragazzino, coetaneo e suo compagno di scuola (una sorta di sosia, quindi), a turbare per la prima volta l’innocente ottimismo del protagonista che inizierà a essere ossessionato dalla morte: “da cui nessuno”, è costretto ad ammettere Alessio, “nemmeno l’amore più grande, avrebbe potuto salvarci”.

Da quel giorno il pensiero dominante del protagonista diviene quello dell’exitus e della sua ineluttabilità. Con il trascorrere degli anni poi, iniziano a venir meno i suoi parenti più anziani: nonni, zii o prozii in un crescendo di scomparse, esequie ed estremi saluti a chi ha compiuto il fatale passo al di là, per dirla con Blanchot. Tuttavia, tanto caparbio è il rifiuto che il protagonista oppone nei confronti di detti eventi pur irreparabili, da figurarsi l’impossibile ritorno dall’aldilà di nonna Immacolata. Un ampio capitolo ‒ occupante, non a caso, la parte centrale del libro ‒ vien dedicato da Carocci a tale narrazione, direi semplicemente splendida, dove la pietas e la commozione si alternano a pagine oniriche e fantasmatiche di notevole impatto coinvolgente. Ma, sia ben chiaro, non v’è nulla di paranormale o di esoterico nel racconto dei colloqui tra la nonna rediviva ed il nipote; appena, nota l’autore: “una minuscola storia ‒ come quella di una vita ‒ che andasse anche oltre sé stessa, che si facesse gioco della propria stessa fine. Una favola interrotta, per disgrazia o per fortuna, da non concludere mai”.

In questo testo così variegato, complesso e multiforme, taluni racconti secondari ( come ad esempio quello del parroco amareggiato da un incontro deludente con papa Giovanni XXIII) potrebbero apparire a prima vista delle divagazioni; ma lungi dal narrare vicende a se stanti, esse invece precisano o, meglio, ribadiscono l’asfissiante clima catto-clericale che caratterizza e insieme devasta l’infanzia del protagonista ‒ forse, mutatis mutandis, simile a quella dell’autore stesso ‒, peraltro narrata da Carocci in modo mai enfatico bensì sempre con un pizzico di straniante (e divertente) ironia. Come la vera e propria sceneggiata napoletana descritta nel capitolo intitolato Paglia, crema e cenere, in cui fanno la loro comparsa personaggi alquanto ilarotragici e si recitano battibecchi degni del teatro di Eduardo De Filippo.

Da ultimo solo un accenno al finale, per non anticipare troppo al lettore, dove ‒ tra l’altro ‒ assistiamo all’ultima omelia d’un affranto don Luciano e all’ultima presenza a messa dell’ormai ex-chierichetto Alessio, in procinto di congedarsi per sempre dall’infanzia e da una religiosità che già più non gli appartiene. Ma la chiusa, speculare all’incipit del romanzo, è onirica, venata da un incubo dal quale occorre il protagonista si desti, morendo al fanciullo che era e rinascendo adulto. Eppure in questo sogno ‒ non si sa se fatto o meno ad occhi aperti ‒ il neo-adolescente ha un’intuizione che ha il sentore d’una mistica agnizione: “Doveva pur esserci qualcosa che venisse prima del principio e della sua inevitabile fine. Qualcosa di cui anche un bambino chiamato Alessio, una briciola di universo amata da altre briciole, dovesse fare parte, e da sempre”.

Ecco (circa) la conclusione. Il resto è un romanzo scorrevolissimo, tutto da gustare.

Roberto Caracci, Le crepe del paradiso, Moretti&Vitali 2021, pp. 337, euro 22,00

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