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Lo Zibaldone

Carla Stroppa: “Gli spostati”

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di Francesco Roat

L’ultimo saggio di Carla Stroppa ‒ Gli spostati ‒ è dedicato a una marea di persone: a quelli che non si sono mai sentiti amati (patendo perciò la difficoltà/impossibilità di amare a loro volta), a tutti coloro: “che non hanno potuto individuare il loro centro di energia e autenticità”, ai disillusi, a chi si considera un asino (senza immaginare che la propria asinità potrebbe condurre su una via di conoscenza spirituale), a quanti non sono riusciti ancora a dar un senso alla propria esistenza, e infine a coloro i quali (oggi, ahinoi, sempre più pochi) hanno il coraggio di comportarsi e pensare in modo non conformista rispetto all’appiattimento cultural-comportamentale odierno.

Ma chi sarebbero gli spostati? Chiara e convincente è la definizione che dà di loro l’autrice ‒ forte della sua esperienza pluridecennale di psicoanalista junghiana ‒: a tale categoria appartengono gli individui che si sentono, appunto, fuori posto; ovvero che vivono male nei più svariati ambiti a cui partecipano: la famiglia, il lavoro, la collocazione sociale, i rapporti interpersonali (specie se affettivi). Attenzione: ciò non vuol dire necessariamente che essi non abbiano raggiunto successi/realizzazioni anche ragguardevoli in questo o quel campo; significa piuttosto ben altro: il sentirsi, a un certo punto del proprio cammino esistenziale, preda d’un disagio deprimente; avvertirsi (o venire avvertiti) giusto come dislocati, svuotati, apatici, incapaci di (ri)prendere in mano le redini di se stessi.

È di solito assai raro ‒ spiega la nostra psicoterapeuta, facendo riferimento a vari pazienti da lei seguiti ‒ che detti spostati abbiano consapevolezza di quale sia il luogo preciso da cui si sentano in esilio, in quanto molte volte essi non riescono a individuarlo; forse perché non l’hanno mai davvero abitato ma soltanto vagheggiato o forse perché si tratta del locus animae, dell’ambito ove ha sede/emergenza privilegiata l’anima. Qualcosa di essenziale, insomma, a loro difetta; potremmo chiamarlo, con termine assai pregnante e simbolico: l’amore. Sia l’eros: quello che lega assieme appassionatamente due soggetti, sia quello di più vasta portata, detto in antico dai cristiani agape: l’amore oblativo, gratuito e rivolto non già esclusivamente a una persona, bensì a tutti gli esseri umani. Ma quando purtroppo l’amore manca (forse in quanto è mancato soprattutto nei primi anni di vita), presto o tardi ‒ dice bene Stroppa con un’espressione eloquente ‒: “è la vita stessa a mancare”.

Così, in un tentativo di vano esorcismo nei confronti del disamore, capita di tuffarsi a capofitto in una o molteplici attività, di collezionare innumerevoli partner, come fa Don Giovanni; o di fuggire dalla realtà perdendosi nelle proprie fantasticherie, come fa Don Chisciotte. E non è certo per mero gusto di citazioni letterarie che Carla Stroppa utilizza spesso puntali riferimenti a testi romanzeschi, mitologici e in primo luogo fiabeschi, ma per il fatto che: “Le fiabe sono narrazioni semplici e dirette che rappresentano il groviglio della psiche senza passare attraverso il filtro del pensiero analitico”. Giacché la parola non è solo logos (il discorso della ragione/logica), ma pure mythos (il discorso dei racconti tradizionali/ancestrali) ossia una narrazione simbolica, metaforica e allusiva, la quale da sempre parla di: “temi esistenziali che riguardano tutti”.

E giusto una fiaba ‒ quella arcinota di Cenerentola ‒ viene utilizzata dall’autrice per trattare il tema ancipite dell’invidia, che al contempo crea danni psichici sia in chi la esercita che in chi la subisce. D’altronde: “Se ci si sente insignificanti, invisibili e isolati dal centro del mondo, si vive nei panni di Cenerentola”, si è la (più o meno) giovane angariata da sorellastre e matrigna (o madre). Qual è allora il ruolo cruciale dell’analista? Quello di favorire le condizioni/occasioni di guarigione da parte dei pazienti, le quali hanno inizio con un mutamento della propria limitata ottica interpretativa, nella graduale acquisizione di maggior fiducia in se stessi grazie ad un’accoglienza amorosa (che non è solo ascolto asettico della/o psicoterapeuta) e grazie a tutta una serie di sollecitazioni che favoriscano il processo d’attivazione di quella che Stroppa definisce virtus imaginativa: ciò che permette alla psiche di immaginare una possibilità d’uscita dal labirinto in cui si senta imprigionata.

Il problema tuttavia è anche far comprendere allo spostato/disorientato come la porta d’uscita da tale labirinto coincida con quella d’entrata; si tratta quindi di provare ad aprirla, anche solo dando ascolto ai propri sogni, alle proprie intuizioni/inclinazioni e fantasie o magari facendo attenzione a quel che suggerisce una fiaba coi suoi simboli eterni di saggezza, speranza e fiducia. O anche semplicemente incamminandosi verso i luoghi ancora inesplorati verso cui ci conducono i desideri che avvertiamo urgere in noi; in quanto: “Le strade del desiderio, per quanto tortuose e pericolose possano essere, vanno percorse, se non altro per imparare che esistono dei limiti insormontabili”. E questo è comunque sempre meglio che rimanere in uno stallo infruttuoso/depressivo.

La seconda parte del saggio è incentrata sulla figura archetipica dell’asino, presente in molteplici figurazioni/narrazioni simboliche. Figura duplice, va subito precisato, essendo tale animale cifra del divino e del demoniaco: ora rappresentando una guida di carattere iniziatico-sapienziale ora una bestia stolta, preda delle più basse pulsioni. L’asino, nell’angusta prospettiva di un’aula scolastica, è l’ignorante, chi non conosce le nozioni ritenute necessarie dai precettori; ma forse ‒ nota condivisibilmente l’autrice ‒ vero sapiente è chi accetta socraticamente d’esser cosciente del proprio fondamentale non sapere, riconoscendo l’asinità dell’io rispetto all’enigmaticità della vita e della morte. L’autentica saggezza sta allora nella consapevolezza di sapersi limitati, vulnerabili, precari, bisognosi d’affetto.

“Solo a questo punto”, scrive Stroppa con felice e appassionata prosa-poetica, “dove c’era competizione si fa strada la pietas, l’amore, l’ascolto ponderato sì, ma senza pregiudizio. La visione della vita si fa spirituale, ispirata, intensa e quando questo accade si rovescia la scala delle priorità vitali”. Occorre pazienza (senz’altro asinina), come minimo, per giungere a un tale traguardo. E umiltà (altrettanto asinina) nell’ammettere che pure ogni genere di psicologia: “deve umilmente indietreggiare di fronte al mistero dell’individualità e alla stupefacente complessità della vita”. Ancora una volta l’asino rappresenta una delle due possibilità dell’anima in crisi, la quale può restare prigioniera negli inferi ‒ come l’asino ctonio, simbolo del malvagio Seth ‒ o ascendere e da psiche farsi pneuma (spirito) ‒ come è stato capace di fare l’asino d’oro di Apuleio. Certo, guai a rimanere bloccati, un po’ come quello di Buridano, nella pseudo-alternativa tra le stalle e le stelle. In una misera stalla è pur nato il Cristo, ma sopra di essa brillava – augurale ‒ una fulgida cometa.

Carla Stroppa,

Gli spostati. Vivere senza amore

Moretti&Vitali, 2020

pp. 211, euro 20,00

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