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Lo Zibaldone

Architetture dell’invisibile

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di Francesco Roat

Guido Brivio, studioso di estetica e pratiche filosofiche, ha recentemente pubblicato un saggio (in edizione trilingue: italiano, francese ed inglese) sull’opera del pittore franco-americano Roger de Montebello, di cui i lettori interessati all’arte contemporanea forse ricorderanno la mostra monografica dedicatagli dal Museo Correr di Venezia nel 2017, a cura di Jean Clair. Non a caso la città lagunare per antonomasia è divenuta infatti dal 1992 il luogo ispiratore per le creazioni dell’artista nonché la sede del suo atelier. Ma ciò che questi dipinge ‒ osserva Brivio esplorando con puntuale rigore e vivacità la pittura di Montebello ‒ non sono semplicemente quelle che potremmo indicare come “immagini emblematiche” presenti costantemente in molti suoi oli su tela che raffigurano peculiarissime visioni/variazioni prospettiche delle chiese veneziane di San Michele e di Santa Teresa o della punta della Dogana, colte in una dissolvenza trascolorante e nebbiosa. In tali quadri, casomai, il Nostro altro non fa che dipingere incessantemente il proprio sguardo su tali vedute. Egli raffigura infatti: “cosa accade qui mentre si guarda”.

Il rischio di chi osserva in modo superficiale queste pitture è di considerarle appena riproduzioni oniricheggianti/cangianti di paesaggi luminosi, sin troppo felici, o “icone apparenti” ‒ dice bene Brivio ‒ di quel mito senza tempo che, nell’immaginario collettivo/turistico, è da tempo divenuta Venezia. A un’analisi più attenta, invece, le opere di Montebello appaiono all’insegna d’una consapevole meditazione sulla valenza paradossalmente/ambivalentemente enigmatica ed esplificatrice, misterica e illustrativa dell’immagine. Certo, il Nostro è pittore del sensibile/visibile, al quale egli guarda però con occhio disposto a coglierne una stupita meraviglia (verrebbe da aggiungere persino: riuscendo a recepire l’epifania miracolosa di ogni cosa). Dunque i suoi topoi pittorici sono altro dalla mera figuratività; anzi potremmo dire che si tratta piuttosto di astrazioni contemplative; anche se il rimando sempre presente alla sensibilità fenomenica mai viene a mancare. Così, in vari quadri veneziani, ci è dato vedere al contempo la forma realistica d’una costruzione architettonica e insieme la sua dissoluzione/sublimazione: dal qui e ora in un altro/altrove quasi metafisico (o senza quasi).

Vedi il portale di Santa Teresa ‒ riprodotto sulla copertina del saggio ‒ che si sfoca: “rivelandoci, nella moltiplicazione della sua identità, la molteplicità dei piani del reale, la sua dimensione ulteriore”. È questa l’aletheia: il disvelamento/velamento che costituisce l’unica verità della pittura; ovvero che essa è, fatalmente, rappresentazione. Giammai mera mimesis: semplice/banale imitazione. D’altronde è condivisibile quanto sostiene Nietzsche, osservando come: “no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioniˮ (Nein, gerade Tatsachen gibt es nicht, nur Interpretationen). Inutile illuderci di poter mai osservare una qualche improbabile realtà oggettiva. Esistono solo fenomeni: il darsi cioè di eventi che appaiono. Impossibile allora andare oltre la parvenza e l’apparenza? Forse no, se è quanto si prefigge il mistico; ma intorno a ciò egli tace o ne parla solo mediante formule metaforico-allusive. Al pittore, e nello specifico a Montebello, non resta dunque che oscillare: “fra ascesi e sensualità, verità e illusione”, cercando di tenere insieme con la sua arte in tutte quante le proprie opere: sensibile e intelligibile, materia e spirito.

L’aspirazione dell’artista quindi pare rivolta a superare ogni forma di dualismo per giungere se non altro ad alludere, a suggerire con le sue immagini l’idea/ideale di un’unità oltre la dispersione del molteplice. Così non posso che far mia una delle riflessioni conclusive di Brivio, secondo il quale i luoghi di Montebello rivelano spazi architettonici che sono: “spazi dell’anima”, nonché luoghi contemplando i quali: “noi troviamo noi stessi”. In tali ambiti abita ciò che è kalos, ciò che risulta bello, il cui significato più antico ‒ come ci ricorda l’autore del saggio ‒ è la sorpresa, lo stupore mirabile (e indicibile) dell’apparizione di un evento inatteso. I dipinti di Montebello alla fin fine mi sembra vogliano essere questo: icone epifaniche che non ambiscono a esprimere definitive forme/assolutezze, ma un umano, troppo umano sguardo sul sottile e umbratile confine che separa fisica da metafisica, reale da irreale, concretezza da sogno fantastico.

Guido Brivio

Architetture dell’invisibile. Roger de Montebello e la verità in pittura,

Moretti&Vitali, 2020, pp. 80, euro 14.

 

 

 

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