Poesia
Antonio Pibiri, “In cosa consiste il lavoro”
“In cosa consiste il lavoro” è il titolo di questa raccolta che, a seconda dell’interpunzione istintivamente applicata dal lettore, può essere una domanda o una affermazione e, molto probabilmente, diventa l’esatta coincidenza di entrambe. Anche se, in poesia, non è sempre utile (e corretto) chiedersi quale sia l’esito contenutistico (“Io non so quali rose un giorno/tracimerà la neve, la tana./Soprattutto non chiedere.”), lungo l’arco impervio e scosceso di questa silloge emergono, con circospetta fierezza, temi portanti, proprio come travi archetipiche, dei quali partecipa l’acuto solipsismo dell’autore. Il femminile -visione mitica- (“il misterioso sogno della piccola Luiza. Ché in passato, prevedendo incendi e alluvioni,/trasse in salvo famiglie dai nidi di mosche”) affiora di sbieco, facendosi spazio tra le insidie di un linguaggio che canonizza l’antropologia del dicibile (“abito da sposa, la mano tortuosa fino al padre/o va’, incontra tua madre che si uccide/per la causa perduta del Cielo”) e appare come simbologia dell’essere, metafisica futuribilità che appartiene a ciascuno da un antico mai-passato (“Una scolaresca femminile attraversa/con freschezza d’incarnato la strada. /Non è la luce il primo latte. Non latte il primo”). E se, talvolta, questo femminile appare nella sua prorompenza di alternativa sostenibile alla noia per l’ineluttabilità del dover essere (“Nelle scialuppe di salvataggio/orina accosciata, coltiva dalie”), sembra anche introdurre l’altra grande tematica della raccolta: l’infanzia (“Abbiamo già conosciuto i secoli delle nostre infanzie”). L’infanzia rappresenta la lingua più chiara del non detto e reca in sé la nostalgia dell’impercettibile e la salvezza dell’intersezione spirituale di ogni fase della vita (“Ci salva l’origine, velata,/ché l’origine è salva,/nostra vera età”), è come una particella che si universalizza (“Ovunque vada porta con sé/il bambino/nascosto/nella lunga barba incolta”) e sancisce quel minimum esistenziale che, consapevolmente o no, nel merito e nella colpa, accomuna ogni uomo a se stesso e agli altri (“Sulla terra dei Giganti/i bambini tormentati dalla fame”). Il linguaggio appare come vincolo, legamento dolente (“Le parole ci chiudono dentro”) eppure è attraverso “una lingua Pratica: non ancora/una lingua detta” che si palesa quella “VISIONE, intera” con anastrofi, ossimori, metafore, neologismi, contorsioni e scomposizioni sintattiche che rievocano i virtuosismi sincretici di Rosselli adattandosi al dato realistico per oltrepassarlo nel ricordo, nella “rabbia di vivere”, nella sfuggevolezza dell’io che si palesa ogni tanto, pur riempiendo ogni verso come liquido amniotico nel suo sacco di vita. Il mare, le mosche, i cani, i viaggi, gli alberi sono solo quei correlativi oggettivi (ed etici) attraverso cui l’uomo “prosegue il lontano”.
Antonio Pibiri
In cosa consiste il lavoro
L’arcolaio Edizioni, 2020
pp.129, Euro 13,00
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