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Zafòn e… Barcellona: quando è la citta ad ispirare gli scrittori
di Gianni Zagato
In tanti anni di vita, e di viaggi, non avevo mai messo piede a Barcellona. E se non fosse stato per la Nave dei Libri organizzata da Leggere:tutti di anni ne sarebbero passati altri, o forse non l’avrei mai incontrata. Non c’è una ragione precisa, è solo l’ordine delle cose. Eppure, la conoscevo bene. Conoscevo i mercati, conoscevo le strade che prima o poi s’incrociano in una silenziosa piazza, sapevo come muovermi da un barrio all’altro, e quello dove più amavo vedermi camminare lento e disincantato, nell’attesa di scendere al mare all’ora obliqua del tramonto, era senz’altro El Raval.
E’ uno degli incantesimi della letteratura quello di portarti con mano a vedere le cose prima ancora di averne esperienza, di farti sentire come a casa nei luoghi dove mai sei stato. E occorre dire che se ogni città in fondo è a suo modo “letteraria”, Barcellona, da questo preciso punto di vista, ha qualcosa in più di tante altre. Pressoché ogni sua longitudine entra in un libro e dissemina percorsi, intesse itinerari di personaggi e storie, così che leggendo ti ritrovi nella mente una mappa talmente speciale da risultare unica. Una città simile, o ce l’hai, o te la devi inventare di tuo. E se c’è un vantaggio storico che la letteratura europea ha su tanta parte del restante mondo, è proprio questo: disporre di città, di luoghi, in cui la storia passata si stratifica, si sedimenta, e si trasmette a noi con quel cumulo di polvere del tempo che ce la rende permanentemente attuale nella sua vocazione letteraria. Proviamo allora, come per gioco, a soffermarci appena su due esempi di cosa voglia dire fare letteratura avendo una città a disposizione, oppure, all’opposto, essendone privi. Forse perché lo reputano difficile, i lettori italiani frequentano poco uno come W.G. Sebald, non considerando in questo che la letteratura, quand’è autentica, porta sempre il lettore per cammini impervi in alta quota. Ebbene, se c’è uno scrittore nostro contemporaneo che s’arrovella nella ricerca dei fondamenti di un’identità europea, è proprio Sebald. Definire il suo genere letterario è impossibile, perché non ne ha uno, dato che li possiede tutti. I suoi temi sono pochi, sempre gli stessi, e quei pochi ruotano attorno alla memoria, dunque riguardano il passato, e il tempo come inquietudine dell’anima.
Prendiamo Austerlitz, un capolavoro costruito su nessun dialogo, su nessuna azione, ma su una città, meglio sulla stazione ferroviaria di una città, Anversa. E tanto basta per dimostrare come nella stazione di Anversa vengono introdotte in ordine gerarchico le divinità del XIX secolo: la miniera, l’industria, il traffico, il commercio e il capitale. Gli ingredienti della storia dell’Europa desunti da ciò che sta al centro delle figure simboliche di quella costruzione monumentale: il tempo, rappresentato dalle lancette e dal quadrante dell’orologio della stazione.
All’opposto, il caso del grande, e fin qui sottostimato, romanziere statunitense Kent Haruf, che avendo avuto in sorte d’essere nato a Pueblo, nel Colorado, una città che fosse capace di contenere le storie del suo dissonante Canto della pianura, ha dovuto prima idearla e poi costruirla, inventarle un nome. La chiamerà Holt, e in ogni pagina finale dei romanzi di quella splendida trilogia si sentirà in dovere di riprodurne la mappa per orientare il lettore.
Carlos Ruiz Zafòn è stato, almeno in questo, più fortunato, perché se si nasce in città come Barcellona per diventare scrittori non occorre prima farsi architetti. La materia è già tutta lì, a portata di penna. Come del resto è toccato in sorte, per dire solo di alcuni, a Francisco Gonzàles Ledesma, o a Mercedes Rodoreda, e naturalmente a Manuel Vàzquez Montalbàn.
Zafòn non ha la potenza espressiva di questi suoi concittadini, e dai suoi romanzi non si stagliano figure irreprensibili come l’ispettore Méndez o l’investigatore privato gran bruciatore di libri nel camino di casa Pepe Carvahlo, né la candida Colombeta, simbolo potente del dolore e della rinascita civile di Piazza del Diamante. Neppure la lotta cruenta di amore e guerra dell’Incerta gloria, altro capolavoro catalano di Joan Sales, da poco riproposto ai lettori italiani.
Ma più di tutti questi, Zafòn ha ottenuto in poco tempo un successo planetario, e sia pure percorrendo strade talvolta commerciali ha fornito a tanti lettori (venti milioni di copie vendute nel mondo per il solo L’ombra del vento, romanzo con cui approda alla narrativa nel 2001, dopo gli inizi dedicati alla letteratura per ragazzi) le chiavi con cui farsi strada nella città catalana e nei suoi intricati labirinti.
Libri sul Libro, si può sbrigativamente definire la sua quadrilogia intitolata Il cimitero dei libri dimenticati. Ed è forse qui l’aspetto più originale di Zafòn come scrittore: mettere al centro del suo narrare la letteratura come personaggio assoluto, e il libro come strumento del suo seducente sortilegio. Difficile allora immaginare una città dove collocare le storie della quadrilogia diversa da quella che ogni anno, nel giorno di San Jordì, affida al libro, e alle rose, il potere di una comunità così internazionale da rappresentare il mondo intero attraverso la lettura. Se ogni cosa ha un’anima, e spesso si tratta di trovarla o di scoprirla proprio attraverso la letteratura, Zafòn con la sua opera in fondo ci ha voluto dire che il libro di anime ne ha addirittura due. Ogni libro, ogni tomo che vedi ha un’anima. L’anima di chi l’ha scritto e l’anima di chi l’ha letto, vissuto e sognato.

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