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Lo Zibaldone

Vera gioia è vestita di dolore

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di Francesco Roat

Nel passato ho avuto il privilegio d’un sia pur breve scambio epistolare con Anna Maria Ortese, rendendomi conto di come, nelle sue lettere, la grande scrittrice italiana esprimesse una franchezza ed un’autenticità profonde e come manifestasse il proprio sentire con espressioni che svelavano un modo di porsi all’insegna dell’empatia ma pure d’una sofferta, acutissima sensibilità. Ritrovo tutto ciò, ed altro ancora ‒ anche se il contesto è senza dubbio diverso: non quello senile, ma quello giovanile della Ortese ‒ nelle Lettere a Mattia, come lei chiamava Marta Maria Pezzoli, sua cara amica e corrispondente (tra il 1940 e il 1943) nel periodo drammatico della seconda guerra mondiale.

Quanto emerge da questi brevi ma intensi scritti è innanzitutto la dimensione di una sorellanza d’intenti e sentimenti fra le due donne. Anche Mattia predilige leggere e scrivere ‒ poesia anzitutto ‒ e si rivela entusiasta dei racconti ortesiani Angelici dolori, che suscitano in lei un profondo senso di identificazione. Come ricorda inoltre Stefano Pezzoli ‒ il nipote di Marta Maria ‒ in una nota a Vera gioia è vestita di dolore (è questo il suggestivo titolo del libro che raccoglie il suddetto epistolario), Mattia, alla pari dell’amica di quegli anni cupi, amava i racconti di Katherine Mansfield e non poteva che condividere la predilezione della Ortese per quella che, in una lettera, Anna Maria chiama: “la religione della Mansfield, la religione della purezza e della poesia”.

Sin dai primi brevi messaggi postali emerge però un alone emozionale luttuoso, inaugurato già da tempo con la morte incidentale del fratello Emanuele, nel 1933, ma proseguito giusto nel 1940 con quella del gemello della scrittrice: Antonio, ucciso in Albania. E destinato a non svanire, ricorda Monica Farnetti nella sua pregevole postfazione al testo, poiché quelli delle Lettere a Mattia sono: “gli anni in cui la lieta brigata dei fratelli e delle sorelle Ortese si scompone e si scioglie”. Ne deriva, da parte della giovane Anna Maria, una insistita “tristezza”, confessata con dolore e rammarico all’amica consolatrice.

Agli stati melanconici si alternano nondimeno quelli rasserenanti della scrittura. Non vi è però mai traccia di un vero e proprio pessimismo leopardiano nella Ortese, per cui la vita è pur bella, ma: “Bisogna mescolarvi molta polvere e molto amaro, o lo splendore e la dolcezza di questa bevanda misteriosa ci ucciderebbero”. Si intervallano così in lei euforia e depressione, tuttavia la consapevolezza di tale avvicendamento non la aiuta a gestirlo e se ne lamenta spesso: “Guai quando mi agito, Mattia, quando mi lascio trasportare dall’entusiasmo. Seguono allora «vuoti» tremendi, certo smarrimento che mi pare debba essere malattia”.

Ma di una cosa la nostra autrice è certa: “È soprattutto sul dolore che bisogna lavorare per farne dolcezza”. Ammettendo che la sofferenza: “è la mia vera patria e io l’ho adornata e vorrò adornarla appunto come una cosa diletta, come la terra, come la casa che amo”. E altresì: “Vera gioia, è vestita di dolore. Vero dolore è vestito di gioia. Sentire, sentire, sempre più «sentire». Io non desidero altro”. D’una prosa-poetica quindi si tratta (caratteristica peraltro di tutti quante le opere ortesiane), benché a livello epistolare, senza particolari pretese creative. Non a caso uno degli argomenti preferiti tra le due amiche è la letteratura e la critica letteraria, nonché i libri preferiti da entrambe.

Va comunque precisato senza reticenze: nella maggior parte dei suoi scritti a Mattia, Anna Maria tende a dolersi. In primo luogo della propria condizione esistenziale sospesa tra melanconia, sottile inquietudine e visionarietà; in secondo luogo della scrittura stessa, che spesso le appare un “rifugio triste”. Non sappiamo invece nulla, purtroppo, della corrispondenza da parte di Marta Maria. La Ortese non ha conservato ‒ come ha fatto la sua amica d’un tempo ‒ l’epistolario di Mattia. Ma dalle lettere rivolte a quest’ultima veniamo a sapere come ella sia stata a lungo una presenza consolatoria, sia pur lontana. Ancora una considerazione ritengo vada aggiunta: la Ortese spesso si scusa con la sua interlocutrice, pregandola di perdonarla; per aver parlato quasi solo di se stessa o per aver trascurato di risponderle nel modo più adeguato.

Col trascorrere degli anni di guerra ‒ a cui pochissimo o nulla si accenna nelle lettere ‒ esse, un poco alla volta, si diradano, lasciando il posto alle cartoline illustrate. Quindi il rapporto a distanza viene meno, senza che sia chiaro il perché. Verranno altre amicizie, altra vita, la fine del fascismo e del secondo conflitto mondiale. Giungerà quindi per la Ortese il periodo della maturità espressiva e della notorietà, con romanzi apprezzati da critica e pubblico, premiati e varie volte ripubblicati. Eppure come non ricordare le parole d’una aspettativa mai poi completamente realizzata, che la giovane Anna Maria inviò a Mattia: “Non ho sete che di gioia, di luce, d’amore. E tutto questo non c’è, fra le carte”.

Anna Maria Ortese, Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, Adelphi, 2023, pp. 160, euro 14,00

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