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Lo Zibaldone

“Sorelle stelle”, Paolo Cosci

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di Gisella Blanco

Con l’avviso “Voglio una poesia che sia prosa pronta alla rissa” l’autore esibisce immediatamente il suo intento etico e linguistico con l’audacia di chi è consapevole che pensiero e parola sono (o dovrebbero essere) gli attivismi precipui dell’uomo contemporaneo. Ed è proprio dell’uomo contemporaneo, dilaniato e divertito da forze psichiche compressive ed estensive in perenne sollecitazione, che si traccia una espressionistica immagine lungo l’intera silloge di versi sciolti, riempitivi di una prima metà della pagina. L’altra metà rimane piena della voce ululante del silenzio: “satollo di peccati imperdonabili/cerco riscatto tra spazi bianchi e ritmo”. Il tempo, nel suo svolgimento cronologico ed emotivo, diventa un geroglifico inutilmente decodificato “tra le fessure d’epoche troppo trascorse” quando un “io vecchio racconta”. Il corpo è parola e la parola è carne “tra un fare balbuziente/e il solipsismo cronico delle mie ombre” eppure è proprio in questa dualità enigmatica e feroce che la fisicità si smaterializza e il verso acquisisce peso e sanguina “fintanto che le parole sminuzzano le viscere”. Appare, allo stremo del conflitto, la poesia: la poesia che c’è sempre stata eppure rinasce in ogni squarcio di pelle e in ogni lesione d’ossa, così come riappare -onirica e misteriosa- nel singulto della parola sfuggente per essere, sempre, “l’urgenza più evidente”. Nella provocazione di una poesia che “muore suicida” delineando con precisione millimetrica “l’ecchimosi di un corpo ferito” c’è il timore che, tra i versi scritti e quelli emotivi, si celi “una forma di nevrosi/la castrazione indebita che ci raggela” mostrandoci l’epifania della nostra spassionata fragilità. Compare anche una poesia punitiva che si spezza in gola per lo spasimo di un recondito horror vacui esistenziale e c’è una poesia appena nata che cerca l’unità ingravidando precocemente se stessa con lo strazio che “è un infuso necessario”. A metà dell’opera, si assiste alla trasformazione dell’iniziale dicotomia tra corpo e parola in un’ulteriore e ancora più rapace dualità: donna e bestia. Il monologo sopraggiunge tra i versi, dissezionando il dialogo impossibile tra i due poli creaturali e caricaturali che si confrontano nell’atavica battaglia tra Eros e Thanatos, nell’apparenza stridente e ossessiva della violenza come unico rozzo tentativo di solidarizzazione. “Sono la bestia/(riflesso d’ombra muscolare)/accelero la vita:/sono io a strappare uteri/a ripulire/a depurare/questa razza infame!” è uno dei versi in cui si palesa più prepotente il dubbio dell’attribuzione: se fosse la donna a parlare, e non la bestia? Non si è in cerca della risposta, la soluzione è la domanda: l’io uno e altro, l’amore e la distruzione, la concettualizzazione della possibilità di essere multiformi all’interno della stessa individualità è ciò che, per avventura, ingloba l’uomo contemporaneo in un panismo che scioglie il più asfittico formalismo per giungere alla dizione straniata e precisa di ogni cosa e di ogni sé.

Sorelle stelle

Paolo Cosci

Effigie Edizioni, 2021

116 pp, 15 euro

 

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