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Lo Zibaldone

Sette brevi lezioni sullo stoicismo

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di Francesco Roat

È lineare, incisivo, nonché accattivante l’incipit del saggio di John Sellars sullo stoicismo romano, poiché punta dritto al cuore di tale concezione filosofica, mirante non già a un sapere astratto bensì a una sophia intesa quale saggezza volta soprattutto a raggiungere/condurre una vita felice. Ecco l’avvio di questo inedito baedeker, guida utile ‒ ritengo ‒ per chi voglia evitare di perdersi lungo la propria parabola esistenziale: “E se qualcuno ci dicesse che molte delle sofferenze della nostra vita dipendono semplicemente dal modo in cui pensiamo alle cose? (…) E se qualcuno sostenesse di poterci mostrare come evitare tutto questo? E se ci dicesse che queste cose sono in realtà il prodotto di un modo sbagliato di guardare il mondo? E se poi dovesse risultare che la capacità di evitare tutto questo è interamente nelle nostre mani?”.

Interrogativi davvero nodali questi, che sintetizzano in modo mirabile l’essenza dello stoicismo, secondo la quale è il nostro modo di porci nei confronti delle cose a condizionare la nostra vita, non già quanto ci accade. Come a dire: dobbiamo trovare un modo di atteggiarci ottimale e non pregiudizievole o prevenuto nei confronti del mondo, degli altri e persino di noi stessi.

Un modo di porsi a prescindere da status, benessere o malessere ‒ fisico, psichico o economico che sia ‒, in quanto secondo lo stoicismo in merito al conseguimento/mantenimento di una vita buona (dell’eudaimonia, direbbero i filosofi stoici greci) ben poco contano le condizioni ‒ peraltro sempre mutevoli ‒ in cui ci troviamo in un determinato momento dell’esistenza. Non a caso così la pensano due fra i più importanti autori analizzati da Sellars: personaggi che si trovavano davvero agli antipodi in quanto a posizione sociale, prestigio e potere. Da un lato infatti troviamo Marco Aurelio: celeberrimo imperatore romano, dall’altro Epitteto: un liberto, ex schiavo, bandito da Roma per ordine di Domiziano. Eppure la loro visione filosofica risulta analoga per il parallelo ritenersi: “indifferenti alle cose come il successo terreno, il denaro o la reputazione”.

Giacché tali conquiste/successi non solo risultano spesso transeunti, ma in primo luogo non comportano il sentirsi soddisfatti di sé e meno ancora la quiete interiore o ciò che tutti desideriamo: la felicità, secondo gli stoici mai da ritenersi equivalente/collegata alla mera disponibilità, sempre precaria, di beni materiali. Non a caso Marco Aurelio nei suoi Ricordi, rammenta innanzitutto a se stesso che ‒ nota Sellars ‒: “la Natura è caratterizzata da un processo di cambiamento continuo, nulla è stabile e non c’è nulla che si possa fare per questo. Tutto quello che possiamo fare è accettare ciò che capita e che non è sotto il nostro controllo, mentre concentriamo i nostri sforzi sulle cose che invece lo sono”.

Che cosa dunque è possibile controllare pienamente? Appena i nostri giudizi, le nostre idee riguardo agli accadimenti. Una tale risposta può lasciarci perplessi solo se veniamo condizionati dalla mentalità (dalla smania) imperante di tutto poter padroneggiare grazie ai progressi di scienza e tecnica, certo assai meno progredite al tempo degli stoici romani. Me se è pur vero che, oggi più di ieri, molto possiamo gestire a nostro piacimento, altrettanto vero è che il miglioramento strumentale non comporta ipso facto un miglioramento esistenziale.

Vediamola da un’altra prospettiva. Vivere a lungo è in generale considerato un bene, ma la semplice durata di una vita non comporta realizzazione personale alcuna. Mozart o Raffaello, pur essendo morti giovani, hanno vissuto intensamente e prodotto capolavori splendidi. Inoltre, nulla è intrinsecamente buono o cattivo, bene o male. Tutto dipende dal valore e dall’importanza da noi attribuiti alle cose. Tornando alla questione del controllo, riguardo ad un fatto ineluttabile (ad es. la morte di una persona cara) ciò che possiamo fare è l’accettazione, non la ribellione, rispetto a detta perdita.

Altro esempio ‒ questa volta riportato da Arriano: discepolo di Epitteto ‒. Un uomo chiede al filosofo

come fare con un fratello che è adirato con lui. La risposta di Epitteto è netta: nulla, non può farci nulla. E, chiosa Sellars: “Non possiamo controllare le emozioni degli altri, perché rientrano nella categoria delle cose che non dipendono da noi. La sola persona che può fare qualcosa per l’ira del fratello è il fratello stesso. Ma Epitteto non si ferma qui; egli sposta l’attenzione a ciò che quell’uomo può controllare, cioè la propria reazione. Egli è turbato dall’ira del fratello ed Epitteto suggerisce che questo è il vero problema”, a cui l’uomo potrà tuttavia rimediare.

Seneca, altro grande pensatore stoico, polemizza altresì con chi vorrebbe una vita priva di difficoltà/avversità, ritenendola semmai un male per noi, che ‒ privi di ostacoli, se andasse tutto bene ‒ non potremmo sviluppare le virtù del coraggio, della pazienza o di quella che noi moderni chiamiamo resilienza. Per gli stoici, insomma, scrive ancora Sellars: “accettare la realtà del fato – del determinismo causale – è essenziale”. Ma: “Le nostre azioni possono fare e fanno la differenza. Esse possono rientrare tra le cause che contribuiscono all’esito degli eventi”. Secondo gli antichi filosofi d’altronde il fato opera attraverso di noi. Quindi non basta accettare ciò che accade, occorre reagire nel miglior modo possibile.

La morte stessa ‒ ritenuta dalla maggioranza degli uomini fenomeno angoscioso ‒ per gli stoici non ha niente di tremendo/negativo, essendo un fenomeno naturale; è piuttosto opportuno considerare la vita una sorta di dono della Natura, che ‒ osserva saggiamente Epitteto ‒ come un giorno ci è stato gratuitamente dato, un giorno ci verrà tolto.

John Sellars, Sette brevi lezioni sullo stoicismo, Einaudi 2021, pp. 112, euro 12,00

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