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Lo Zibaldone

Roberto Caracci:”Preludi & deliri”

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di Francesco Roat

Sin dalle prime pagine appare assai brillante nonché coinvolgente, Preludi&deliri, il nuovo testo narrativo dell’eclettico Roberto Caracci: abile romanziere, ma pure saggista e animatore di un frequentato cenacolo letterario milanese (il Salotto Caracci). L’ambientazione è partenopea, ma di una Napoli targata anni Settanta si tratta, forse ancora più caotica/caleidoscopica di quella attuale, che il Nostro sa rievocare in pochi (ma intensi) tratti di penna e che denotano una maestria espressiva fuori dal comune. Così il lettore viene subito trascinato nel traffico ingarbugliato/chiassoso d’una città unica al mondo, tra viuzze e vicoli invasi da bancarelle, venditori ambulanti e ambulanze, veicoli strombazzanti e guidatori vociferanti; ma dove mirabilmente: “L’odore del gasolio e del metano, proveniente dalla strada, si fondeva con quello delle brioche appena sfornate dai negozi aggettati sui marciapiedi, profumi di sfogliate cremose, pizze fritte nell’olio, taralli pepati…”.

Però questo andante alquanto vivace è solo l’ouverture d’una inedita partitura narrativa. Cuore del romanzo è infatti l’audizione, da parte del giovane protagonista, del poema sinfonico Les Préludes di Liszt, impostagli da suo zio Carlo: un melomane impenitente che lo ha invitato a casa sua solo per fargli ascoltare un disco di quell’opera tardo-romantica, diretta dall’istrione von Karajan. Il ragionier Carlo Avena – come specifica la targa in ottone all’ingresso dell’abitazione ‒ è un assicuratore di mezza età, che Caracci fotografa nell’istante in cui l’ometto apre la porta a testa bassa, calzando eloquenti pantofole color “grigio topo”. Ma l’aspetto e le condizioni alquanto misere dello zio ‒ a giudicare della scassata Seicento Fiat di sua proprietà e dall’ignavia con cui egli risponde alla telefonata di un cliente ‒ non corrispondono certo all’entusiasmo che lui dimostra nel commentare l’amata partitura musicale lisztiana.

Appena dunque Carlo cala la puntina sul solco del vinile, egli si trasforma in una metamorfosi imprevista e imprevedibile. Non più personaggio spento, umile, impacciato e frustrato (dal lavoro che non ama e da una moglie che aborre la musica classica), eccolo rivelarsi un oratore eccezionale: ardente, impetuoso e appassionato; in grado soprattutto di trascinare il nipote lungo la perenne ‒ e parallela ‒ trasformazione motivica dei Preludi lisztiani. Ed è un vero e proprio delirio fantasmatico il monologo allucinante che l’uomo recita in primo luogo a se stesso, prima ancora che all’attonito nipote. Non solo. Il ragioniere diventa filosofo, invitando stoicamente il ragazzo a saper nella vita: “accettare gioia e dolore”; però poi finisce col prender le distanze dalla logica ordinaria e decolla verso altezze via via sempre più esoteriche, in un crescendo di affermazioni tanto più suggestive quanto irrazionali, nella tensione ad un oltre e ad un altrove cui egli può solo alludere.

Caracci si rivela davvero magistrale nel tradurre in parole la musica di Liszt e, al contempo, nell’invenzione del controcanto abbacinante da parte dello zio, reso mediante una prosa poetica, funambolica e cinematografica che cattura il lettore e lo fa partecipe, oserei dire: lo fa vivere ‒ al pari del protagonista ‒ questa audizione fantastica che raddoppia l’immaginario sonoro, evocandolo o forse meglio celebrandolo. Tutto ciò senza che la misura sfugga di mano all’autore, che non corre mai il rischio di scivolare nell’enfatico, nel ridondante, meno che mai nel sentenzioso. Questo grazie all’ironia che pervade e stempera ogni pagina, dove il sublime si coniuga ad una ben temperata comicità partenopea, miracolosamente in grado di affrontare quella hilarotragedia (per dirla con Giorgio Manganelli) che risulta esser sempre la vita.

C’è altresì un capitolo del libro, il quale tratta dell’oltre più estremo che riguarda l’umana esistenza. Esso, non a caso, fa riferimento alla Prefazione ai Preludi lisztiani, scritta dal grande musicista ungherese, in cui troviamo affermato: Che altro è la nostra vita, se non una serie di preludi a quell’inno sconosciuto, la cui prima e solenne nota è intonata dalla morte? In sostanza, Carlo Avena cerca di registrare sul magnetofono quelle che lui crede siano le voci dei defunti e racconta al nipote un episodio insieme spassoso e pietoso, di cui non è il caso di anticipare nulla per non guastare al lettore il piacere di gustarlo direttamente. Trovo opportuno però accennare ad esso, con una breve citazione, solo per dare un assaggio di questo ennesimo delirio (consolatorio), intorno ai trapassati, che ‒ a detta di Carlo ‒: “Sono attorno a noi. Ci guardano. Ci ascoltano, non se ne sono mai andati. Stanno da qualche parte, e per loro fluttuarci lontano o vicino è lo stesso. La distanza non conta. È lo stesso universo. Non possono essersene andati da un’altra parte. Non c’è un’altra parte. Dove potrebbero andarsene? Dall’universo non si sfugge, e neanche dalla vita. Noi siamo condannati a vivere qui, in questa bacinella siderale, e non c’è altro che il qui. L’altrove è qui”.

Due parole infine sulla conclusione del romanzo, che rievoca una gita in cima al Vesuvio, fatta compiere anni prima dallo zio al nipote, allo scopo di farlo mettere: “in contatto con qualcosa che ti porterà oltre, che ti spalancherà un altrove”. Ma il ragazzo non riesce a cogliere quanto il signor Carlo gli ha promesso di raggiungere. Ci riuscirà molto tempo dopo, giusto tornando a casa dopo l’audizione dei Preludi, quando egli si libererà dall’ansiosa impazienza di fronte al traffico paralizzante e dall’urgenza della fretta, affrancandosi dalla signoria dell’inquieto Kronos (il dio del tempo, bestemmiato dagli automobilisti, smaniosi di non sprecarlo invano) e ponendosi sotto la protezione di Kairos ‒ il nume dell’attimo propizio ‒ che consente al protagonista di gustare la quiete del qui e ora in un presente vissuto appieno, il quale diviene per lui quasi presagio/preludio d’eternità.

Roberto Caracci, Preludi&deliri, Delfino&Enrile Editori, 2020, pp. 115, euro 12,00

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