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Religiosità senza Dio

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di Francesco Roat

 

La considerazione categorica con cui si apre il saggio di Marià Corbí, Verso una spiritualità laica, è senz’altro condivisibile: “Per la maggior parte delle persone, specialmente negli ambienti più giovani e dinamici” ‒ soprattutto in Occidente, mi permetto di precisare ‒ “le religioni tradizionali sono ormai collassate”. La gente infatti non regola più la propria condotta seguendo le indicazioni dei Libri sacri, va sempre meno in chiesa ed è totalmente disinteressata a dogmi, catechismi e teologie. Il processo della cosiddetta secolarizzazione è una realtà incontestabile ed oggi si tende ad affidarsi alla scienza (ed alla tecnologia) piuttosto che a Dio. Questo significa che ‒ a detta di Corbí ‒ l’umanità nel terzo millennio è destinata a declinarsi all’insegna di un laicismo dove la fede in esseri supremi e/o miti delle religioni tradizionali finirà con lo scomparire o divenire aspetto socialmente marginale e irrilevante.

Ammesso quanto sopra (ma, a mio modesto avviso, non proprio del tutto concesso), nemmeno secondo l’autore spagnolo ciò significherà né comporterà tuttavia la scomparsa della spiritualità, mai rivolta solo all’elemento materiale/fisico dell’esistenza e che, secondo una sua felice definizione, rappresenta la: “dimensione assoluta del nostro accesso al reale”; ambito da sempre coltivato dalle varie espressioni religiose. Ma, è opportuno ribadirlo, occorrerà ‒ per Corbí ‒ abbandonare l’antico modo di vivere l’esperienza spirituale tipica delle società preindustriali e patriarcali: statica e fatta di credenze dogmatiche ed imposte ai popoli. E ciò per sviluppare una spiritualità nuova, dinamica, libera da imposizioni o precetti rigidi: “senza nessuna verità alla quale aggrapparsi, senza nessun modello di bontà, senza potere, senza fissa dimora”.

Per un’inedita forma di religione, in grado davvero di religare (ovvero legare, unire assieme) le persone nell’ottica non più miope di uno sguardo che sappia cogliere l’interconnessione di tutte le cose esistenti, facendo propri l’ammirazione, il rispetto e la cura di esse. Però ‒ sempre secondo il filosofo spagnolo ‒ non bisogna certo buttar via il bambino con l’acqua sporca, ossia considerare ormai inutilizzabile la ricchezza e la sapienza presente nei testi sacri del passato, i quali, liberati da fideismo e superstizioni varie, possono venir letti come espressioni simboliche e poetiche, ancora attuali e valide. Tutto sommato, nel saggio, si ha pur consapevolezza che le tradizioni religiose ‒ al di là delle credenze in esse presentate ‒ hanno sempre invitato l’uomo ad un percorso di crescita, consistente: “nel passare dal leggere, ponderare e trattare la realtà dall’angolazione dei bisogni propri di un vivente al leggerla, ponderarla e trattarla dal silenzio dei bisogni”.

È dunque stato, ed è ancora, un invito a superare la necessità (e la sua durezza/imperiosità), nel tentativo di procedere oltre l’egocentrismo, con tutte le sue brame e le sue avversioni, per giungere alla gratuità, alla pura condizione di testimoni disinteressati e, non da ultimo, alla fondamentale unità (tra me e gli altri, tra soggetto e oggetto, tra visione e cose vedute). Si tratta, insomma, d’un cammino di liberazione o progresso: “attraverso la sensazione di non riconoscere più ciò di cui ho bisogno, ma di riconoscere ciò che è lì perché è lì, senza chiedere nulla, godendo semplicemente del fatto che è così com’è ed è lì”. Occorre altresì comprendere che i vecchi testi sacri non vogliono porsi come risolutori dei problemi umani; anzi essi ci stimolano a superarli, ad andare oltre essi lasciandoceli alle spalle irrisolti, poiché se non ci occupiamo più di essi, possiamo approdare ad una quieta serenità, data giusto dalla nostra piena e spassionata accettazione degli eventi, specie se dolorosi.

Infine Corbí assume accenti mistici parlando di cosa ci possono ancora insegnare, oggi ‒ nel tempo del relativismo, dei mutamenti e delle incertezze ‒, gli autentici ammaestramenti religiosi, tra cui, in primo luogo: “la conoscenza silenziosa, la possibilità di scappare dall’identificazione con la struttura duale della realtà ‒ nella quale esiste la pluralità, lo spazio, il tempo, il nascere e il morire ‒ per arrivare a comprendere che «ciò che è» è «questo non duale», che anche io sono, in cui non c’è pluralità, né spazio, né tempo, né nascere né morire, ma solamente unità”. Ancora, trattando di come molte antiche religioni asseriscono che non vi sia per noi una fine definitiva ma parlano, come il cristianesimo, di vita eterna, egli ci invita a non prenderle mai alla lettera e a non considerare le metafore simboliche dei miti quali formule esatte, analoghe a quelle di tipo scientifico. Ed ecco il suo parere:

“Queste osservazioni non devono prendersi come descrizioni della realtà, non devono essere usate per immaginare che qualcuno possa sfuggire dalla propria completa condizione mortale. Qualunque «non-morte» o «vita eterna» deve essere una melodia che dobbiamo essere in grado di ascoltare dal canto della morte stessa, come viene, senza che sia possibile per noi ammorbidire né la sua voce né il suo canto. (…) Questo è il grande compito che porta alla conoscenza: non fuggire dalla realtà così come si presenta e arriva, ma rispettarla, accoglierla, amarla”.

Marià Corbí, Verso una spiritualità laica. Senza credenze, senza religioni, senza divinità, Il Pozzo di Giacobbe, 2023, pp. 314, euro 30,00

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