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Parlare con Dio
di Francesco Roat
Il termine teologia (dal greco antico theologhia: discorso intorno a Dio) viene utilizzato per la prima volta da Platone nella Repubblica, allo scopo di indicare il genere di racconti che vengono fatti intorno agli dei dai poeti. Successivamente Aristotele, nella Metafisica, considererà la teologia come la più alta forma di conoscenza, giacché ciò di cui essa tratta è la sostanza divina. In seguito, e sino a tutt’oggi, i filosofi dibatteranno ‒ potremmo dire senza fine ‒ intorno alla teologia e alle sue diverse accezioni. Ma fin dall’antichità ogni discorso intorno al divino s’è sviluppato seguendo due diverse modalità: quella detta catafatica (o affermativa), che sostiene la conoscibilità di Dio mediante la ragione; e quella detta apofatica (o negativa), la quale, tenendo conto dell’ineffabilità di quest’ultimo, ritiene che ogni parola (logos) sia inadatta a descriverlo.
Questo è quanto ci ricorda Umberto Curi all’inizio del suo ultimo saggio, che si/ci pone tutta una serie di interrogativi, giusto a proposito di ogni teologia, fra cui emergono i seguenti. Si può parlare di Dio, al di là della infruttuosa distinzione tra atei e credenti? Si può, in qualche modo, parlare di Dio senza la pretesa di de-finirlo, cioè di limitarlo con un discorso sempre e inevitabilmente umano, troppo umano, per dirla con Nietzsche? Infine: Dio è davvero morto ‒ come ebbe a sostenere il suddetto pensatore ‒, e tale sentenza filosofica moderna è davvero inappellabile?
A proposito di sentenze, come non ricordare la figura emblematica di Giobbe, che pretese di citare Dio in giudizio, ritenendolo colpevole/ingiusto per avere punito in modo atroce un uomo retto, pio ed innocente quale, in effetti, era sempre stato detto personaggio. Ma allorché finalmente Yhwh (il Dio biblico) risponde all’appello della sua creatura, il perseguitato comprende quanto sia inammissibile: “volere che Dio corrisponda alla nostra ragione, al nostro discorso”; ma non solo, riconosce che una tale pretesa: “è voler misurare Dio, ricondurlo integralmente alla nostra misura”. Così già con Giobbe ‒ sostiene Curi ‒ entra in crisi la possibilità di parlare di Dio e si inaugura quella teologia che consiste piuttosto nel parlare a Dio.
Realizza questo un altro personaggio del cosiddetto Vecchio Testamento: Abramo, che è disposto persino a sacrificare il proprio unico e amatissimo figlio in ottemperanza alla richiesta di farlo da parte di Yhwh, a cui Abramo risponde con cieca obbedienza: “Eccomi!”. È la piena accettazione per fede/fiducia in Dio, è credere nonostante ciò possa apparire umanamente assurdo, è infine il rigettare la propria volontà personale per attuare quella divina: scelta drammatica che più tardi verrà attuata in modo esemplare da parte di Gesù, che fece suo e predicò ai suoi seguaci il fiat voluntas tua.
Così parlare a Dio implica un rispondere a Dio, tramite un comportamento che cor-risponda alle sue indicazioni espresse nei comandamenti del decalogo, che comportano una nostra precisa/fattiva responsabilità nei confronti del prossimo. Tenendo conto di quanto sottolinea Curi, nell’osservare come il prossimo non sia colui che mi sta più vicino (latinamente: proximus), bensì quello a cui io mi avvicino. Ma l’amore (agape) verso l’altro, oltre alla cura e all’interessamento altruistico, si esprime in modo mirabile nel perdono cristico nei confronti dei colpevoli: vero e proprio scandalo per l’antica mentalità ebraica, incline ad una giustizia basata sull’occhio per occhio e dente per dente. Il massimo del perdono ovviamente ‒ oltremodo difficile da mettere in pratica ‒ è quello espresso da Gesù in croce nei confronti dei propri carnefici.
C’è altresì un ulteriore parlare di Dio, inteso quale discorso fatto/ispirato da Dio all’uomo, come l’Apocalissi (dal greco apokalypsis: disvelamento/rivelazione) giovannea. Testo che però non si riferisce ad eventi futuri o alla fine del mondo ‒ precisa Curi ‒, poiché in quest’opera si svela/rivela appunto ciò che già è, qui e ora. D’altronde l’Apocalissi è l’ultimo scritto del Nuovo Testamento e annuncia, come i più noti Vangeli (dal greco euanghelion: buona novella), la Rivelazione cristiana ad opera del Cristo: ritenuto dai credenti il Figlio di Dio: Verbo o Logos per eccellenza.
Per finire, un accenno al silenzio, forse il mezzo migliore per: “avvicinarsi alla realtà divina”. Silenzio come ascolto e quiete interiore, perché nell’interiorità Dio ci possa parlare o indicare qualcosa di spiritualmente/estremamente significativo: “che va oltre ogni dire”. In tal modo ‒ conclude il suo saggio Umberto Curi ‒: “Nella triangolazione fra il silenzio come ascolto, il tempo come cancellazione del divenire e l’ascesi come esercizio, si condensa il monito a ricercare la verità nel ritorno alla propria interiorità. «Mi hai sedotto Signore, ed io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7)”.
Umberto Curi, Parlare con Dio. Un’indagine fra filosofia e teologia, Bollati Boringhieri, 2024, pp. 155, euro 15,00

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