Lo Zibaldone
L’uomo che amava i bambini
di Francesco Roat
Da tempo mi capita sempre più raramente, trovandomi a recensire un romanzo, di poter affermare che si tratta d’un capolavoro della narrativa. Ma ora questo mi sembra davvero il termine appropriato per definire lo straordinario affresco familiare di Christina Stead, The Man Who Loved Children, già pubblicato da Adelphi nel 2004 e riedito qualche mese fa - sempre mantenendo la bella traduzione di Floriana Bossi -, con il puntuale titolo de: L’uomo che amava i bambini, differentemente da quello dell’uscita originaria in lingua italiana di tale testo (dato alle stampe da Garzanti, nel lontano 1978), che in modo alquanto arbitrario era stato intitolato invece Sabba familiare.
Dell’opera eccellente esso ha, a mio avviso, tutti i crismi. L’esemplarità della forma – attraverso una scrittura nel segno d’una briosità/varietà e scorrevolezza dialogica che riesce persino a inventarsi un linguaggio adulto mutuato da quello infantile, con perifrasi e neologismi inediti: sorta di lessico domestico per i soli membri di casa Pollit, i componenti grandi e piccoli della quale sono i protagonisti d’una vera e propria saga antieroica – e quella del contenuto ossia lo spaccato del quotidiano d’una famiglia americana piccoloborghese fine anni trenta, specchio dei difetti (tanti) e delle virtù (ahimè, assai poche) della middle class cittadina statunitense fondata sui logori ma tenaci puntelli del conformismo, perbenismo e moralismo più beceri.
Ma non solo L’uomo che amava i bambini è un romanzo felice per il registro stilistico originale ma fluentissimo e per la vicenda narrata che diviene occasione per una acutissima ed ilarotragica disamina sociopsicologica. Ciò che più colpisce è la vivacità e soprattutto l’assoluta plausibilità dei ritratti (anche se terribili) e dell’inarrestabile crescendo di eventi che porteranno alla drammatica e luttuosa catarsi finale. In altri termini, si tratta di finzione letteraria, è vero, e gli eclatanti episodi/esempi di (ora stucchevole, ora abominevole) vita familiare non si riferiscono a fatti cronachistici, né ambiscono a essere realistici, eppure, a onta dell’artificio che li informa (e al di là dei pur notevoli mezzi espressivo/evocativi di cui l’autrice dispone), noi scorgiamo in essi l’inquietante verità/possibilità di ciò che noi potremmo o avremmo potuto divenire se appartenessimo, o fossimo mai appartenuti, ad una stirpe come quella dei Pollit. Perché – a ben guardare – sia pure alla lontana con tale progenie tutti noi abbiamo una certa parentela; essendo esseri umani consapevoli di quanto sia verace l’antico detto di Terenzio: «Sono uomo e non ritengo nulla di quanto è umano a me estraneo» (Homo sum, humani nihil a me alienum puto).
Al contempo credo sia ipotizzabile che il lettore ‒ per esorcizzare il disagio che la via via più evidente alienazione di tale famiglia genera in lui ‒ sia pure spinto a dirsi: queste figure non sono vere, non rispecchiano la realtà; si tratta di personaggi: maschere di un teatro della crudeltà (psicologica, quantomeno). Ma anche ciò ha un suo senso nella percezione di un’opera così coinvolgente/straniante. E credo che l’intento della Stead fosse questo nel 1940 (data della prima uscita del libro negli USA): non già épater le bourgeois, scandalizzare i benpensanti con una storia di nefandezze psicologiche e relazionali, ma mostrar loro come all’ombra dell’etica e dei principi più intransigenti possa allignare e crescere indisturbata la mala pianta dell’immoralismo, del misconoscimento altrui o della disumanità.
Insisto, allora: i due genitori Pollit (che pur imbevuti di buoni propositi educativo-coniugali finiscono per odiarsi e farsi odiare dai figlioli) rappresentano il nostro doppio, raffigurando di tutti noi madri e padri premurosi, mariti e mogli amorevoli, la nostra parte oscura, contradditoria, ambigua, negativa e aggressiva. Essi ritraggono il volto stravolto dell’amore che degenera in disamore, l’incubo in cui può trasmutare il sogno utopistico d’una famiglia idealizzata e perciò, questa sì, davvero fatalmente romanzesca.
Christina Stead, L’uomo che amava i bambini, Adelphi 2021, pp. 659, euro 16,00
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