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Le polarità di Herman Melville: giungle di smeraldo, oceani e isole, oscurità e luce
“Credo che ci voglia meno coraggio ad affrontare un capodoglio o un tifone che a passare per un pedante letterato” scrisse Pavese nell’Ottobre 1941, esattamente un secolo dopo l’imbarco di Melville sulla Acushnet. Era un marinaio Herman, che è stato capace di guadagnarsi il titolo di letterato – nonostante la saltuaria educazione scolastica – ed è stato il matrimonio tra questi suoi due tratti a produrre il capolavoro che è Moby Dick.
Herman Melville nasce duecento anni fa, il 1° Agosto del 1819. Il nonno materno, Peter Gansevoort, difese Fort Schuyler dalle Giubbe Rosse; il nonno paterno, Thomas Melvill (senza la “e” finale), fu un co-cospiratore del Boston Tea Party. Entrambi uomini di successo, fecero fortuna in seguito alla carriera militare; diverso il destino di Allan, padre di Herman, che morì nel 1832 oberato dai debiti. Fu la prima volta – ma sicuramente non sarà l’ultima – che Herman lasciò la scuola, appena dodicenne, per lavorare col dispotico ma finanziariamente stabile Zio Peter, direttore della New York State Bank. Nei cinque anni successivi la morte del padre lavorerà per breve tempo con il fratello per poi spostarsi al porto. Scrive Melville sulla prefazione di “Redburn” di come questo fu il momento in cui si sentì più spinto a fare qualcosa per se stesso, era una necessità e al contempo una disposizione, desiderava vedere, viaggiare. Prese il mare.
Venne assunto come marinaio comune sulla St. Laurence per Liverpool nel 1839, fu una sbirciata al vasto mondo, niente più. L’imbarco che più d’ogni altro segnò Melville fu però quello sulla baleniera Acushnet, nel Gennaio del 1841. Fu a bordo della Acushnet che lesse “The Narrative of the Most Extraordinary and Distressing Shipwreck of the Whale-Ship Essex”, un memoriale che racconta la storia di una spedizione terminata tragicamente, a causa della distruzione della nave da parte di un capodoglio; il nostro non ancora autore aveva così acceso il lume che avrebbe portato alla sua opera più grande. Ai tempi le balene non erano intelligenti creature meritevoli di rispetto e protezione, bensì mostri da monetizzare; e Melville era pur sempre un uomo del suo tempo. Ora del giugno del 1842, dopo aver navigato a sud di Capo Horn fino al Pacifico, la nave aveva riempito 750 barili di olio di balena, ed in seguito Melville scrisse dettagliatamente del metodo d’estrazione.
Giunti a Nuku Hiva, nell’arcipelago delle Isole Marchesi, Melville racconta di come la bellezza di Taiohae fosse stata per lui deturpata da sei navi militari. Gli capitò di arrivare durante la disputa Britannico-Francese riguardo la conversione e possesso del territorio polinesiano. Quell’anno, un ammiraglio francese di nome Abel Aubert du Petit-Thouars aveva persuaso i capitribù dell’arcipelago nel permettere l’annessione, quando loro s’aspettavano protezione. Melville non fu timido nel denunciare ciò a cui assistette. Non fu neppure il primo uomo bianco a visitare Nuku Hiva, ma fu uno dei primi a frequentare la tribù più temuta – ed “anti-europea” – delle Isole, i Typee, detti anche Taipi, con i quali si pensa abbia trascorso circa tre settimane.
Arrivati in porto difatti, il capitano della Acushnet non mancò di indurre i propri marinai a tenersi lontano dalle “canaglie tatuate”, pena ritrovarsi a bollire dentro un pentolone. Le leggende sulle “canaglie” polinesiane non mancavano, la fama dei Typee li precedeva; il nome stesso incute timore: la parola Typee nel dialetto delle Isole Marchesi significa “amante della carne umana”.
In “Taipi”, suo primo romanzo – una miscellanea di racconti autobiografici, inganni da cantastorie e storie d’autori ignoti prese in prestito, nel quale racconta del periodo trascorso con i nativi Polinesiani e della sua fuga-, Melville sarà protagonista nei panni di Tom, che addita il capitano della Acushnet come tiranno, ritenendo che il viaggio si sia protratto oltre i tempi accordati e denunciando la scarsità di cibo.
Melville disertò nel Luglio del 1842 e non salì mai più a bordo della Acushnet. Tutto ciò che sappiamo della sua fuga – escludendo le pompose descrizioni della fuga di Tommo in “Taipi”, nonostante non siano da considerarsi false – è che gli indigeni lo abbiano probabilmente sfamato, ospitato e reso pacificamente ai militari europei presenti sull’isola.
Un mese dopo aver disertato si imbarcò sulla baleniera Lucy Ann che raggiungerà Tahiti; il viaggio ispirerà il sequel di “Taipi”, “Omoo” – che ci avvicina sempre più a Moby Dick. Arrivati a destinazione, per paura di eventuali diserzioni – ai tempi non poco frequenti – il Capitano negò licenza ai propri marinai. L’animo ribelle spinse Herman ad unirsi all’ammutinamento – risposta dei marinai alla licenza negata – della Lucy Ann; l’ammutinamento fallì e Melville si trovò rinchiuso in quella che secondo la sua traslitterazione si chiamava “Calabooza Beretanee”, che in Tahitiano stava a significare “carcere Inglese”. Ma la pena gli fu presto diminuita e Melville potè tornare a vagabondare. Durante il suo soggiorno a Tahiti assistette alla violenta imposizione di un nuovo codice morale ed un sistema scolastico paragonabile a segregazione razziale. La sua conclusione fu semplice: “The Thaitians are worse off now”.
Nel Novembre dello stesso anno partì nuovamente alla volta di un villaggio di nome Tamai (ora Temae), “dimora delle più belle e semplici donne”. Dopo qualche giorno passato ad apprezzare i movimenti “appassionati” dei “palpitanti grembi” delle silfi di Tamai, Melville ricevette la soffiata che le autorità fossero in arrivo per lui; seppe di dover andarsene in fretta se non voleva essere arrestato di nuovo, questa volta per vagabondaggio.
Così si ritrovò a bordo della baleniera Charles and Henry, tra il Gennaio e il Marzo del 1843 sbarcò alle Hawaii – allora chiamate Isole Sandwich. Sappiamo che ha passato del tempo ad Honolulu, grazie ad un contratto di lavoro che lo vide impegnato come contabile di un gentiluomo inglese per un anno. Nel frattempo anche la Acushnet aveva raggiunto le Hawaii, ma soprattutto aveva denunciato Melville per diserzione. Ancora una volta Melville viola gli accordi del proprio contratto e nell’Agosto del 1843 si arruola nella fregata USS United States. Delle Hawaii scrisse: “Che ha da desiderare il selvaggio per mano della Civiltà? […] Lasciate che a rispondere siano le isole delle Hawaii, un tempo sorridenti ed affollate di nativi ora malati, affamati, morenti. I missionari possono tentare di mascherare la questione quanto desiderano, ma i fatti sono incontrovertibili.”
Grazie alle lettere a Nathaniel Hawthorne, scrittore e amico, adorato da Herman, sappiamo che iniziò a scrivere “Taipi” non prima del 1844; l’anno successivo Harper si rifiutò di pubblicarlo. Per mano del fratello Gansevoort, “Taipi” venne pubblicato dalla casa editrice londinese Murray nel 1846, poco dopo venne pubblicato in America dalle edizioni Putnam. Arrivò la fama.
Dopo le critiche ad “Omoo” e la censura di “Taipi”, per questioni economiche Herman affretta l’uscita di “Mardi” e “Redburn”, seguito ad un anno di distanza da “Giacchetta Bianca” – tutti racconti di mare.
Scrisse a Hawthorne: “ciò che mi sento spinto a scrivere è proibito […] eppure, in fin dei conti, non posso scrivere d’altro”; poco dopo nacque Moby Dick.
Fu pubblicato nel 1851 e ricevette critiche tanto Europa come in America, principalmente riguardo la scelta del racconto in prima persona nel contesto di una trama che prevede la morte di tutti i personaggi – meno il narratore, s’intende. “Profano” ed “indecente” – come lo definì una rivista congregazionista newyorkese – costò a Melville il supporto della famiglia. Anche se visse quarant’anni dopo la pubblicazione di “Moby Dick” non furono anni sereni: gli capitò lo stesso destino del padre, Allan, quasi si separò dalla moglie che lo riteneva malato di mente e suo figlio Malcolm morì a 18 anni. Concludendo con le parole di Pavese e la sua prefazione di “Moby Dick o la Balena”, edito Adelphi: “Queste sue infelicità non ci toccano. È la solita sorte dei grandi [..] questa infelicità ha avuto qualche parte in Moby Dick. Benvenuta quindi.”
M. Beatrice Rizzo
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