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La vita interiore
di Francesco Roat
All’apice della annosa/penosa disputa sul quietismo, François de Fénelon (1651-1715) scrive La vita interiore: una sorta di apologia della mistica cristiana, che è forse l’espressione migliore della letteratura di genere spirituale nella Francia di fine secolo XVII. Purtroppo, giusto nel 1699, papa Innocenzo XII condanna tale opera e ne vieta la stampa. La conseguenza di detta censura è quella che gli studiosi francesi chiamano la déroute de la mystique, la disfatta della mistica, mai apprezzata d’altronde ovunque dalla Chiesa, che, tramite il tribunale dell’Inquisizione, aveva mandato al rogo (fra tante altre persone) Margherita Porete e condannato post mortem Meister Eckhart ‒ due tra i più significativi mistici medioevali ‒; né va dimenticata la triste fine dell’eretico predicatore Giordano Bruno, arso vivo giusto nel 1600.
Come nota condivisibilmente Marco Vannini ‒ il curatore e traduttore di questo testo, nonché il più autorevole studioso italiano della mistica occidentale ‒ la condanna papale del Nostro: “completò infatti quell’opera di rimozione della mistica dal centro della vita cristiana che si era iniziata pochi anni prima con il processo e la condanna di Miguel de Molinos”. Così il secolo successivo sarà all’insegna dell’illuminismo e della dea ragione, mentre la spiritualità e la stessa Chiesa finiranno ben presto per venire emarginate dalle nuove e trionfanti convinzioni/condizioni culturali. Soltanto a partire dalla metà dello scorso secolo, ci ricorda Vannini, la mistica riemergerà dal dimenticatoio rivelando nuovamente tutta la sua pregnanza/importanza.
Ma veniamo a La vita interiore: opera della piena maturità di Fénelon. Rifacendosi all’apatheia dei filosofi epicurei e stoici (va però precisato che la parola italiana moderna apatia non rende bene il significato di questo termine greco che, semmai, andrebbe tradotto con imperturbabilità), nonché di vari Padri della Chiesa ‒ tra cui Clemente Alessandrino, Evagrio Pontico, Gregorio Nazianzieno e Giovanni Climaco ‒ il teologo francese ritiene appunto di basilare importanza per una autentica condotta spirituale l’imperturbabilità quale presa di distanza dalle inquietanti passioni/emozioni. È la santa indifferenza ‒ tanto cara ad un altro autore apprezzato da Fènelon: Francesco di Sales ‒ che, va ribadito a scanso di equivoci, significa innanzitutto magnanimità, grandezza d’animo di chi tutto è in grado di accettare con animo sereno.
Secondo il Nostro, altresì, deve essere eliminato l’amour prope, l’amore di sé, il quale è indice di un egocentrismo gretto e miope, a cui va senz’altro preferito l’amore altruistico, l’agape tanto cara a San Paolo (Cfr 1Cor 13, l – 13). Ma non basta. Pure la volontà individuale è un ostacolo al cammino mistico, in quanto espressione egoica per eccellenza. Già il mistico medioevale per antonomasia, Meister Eckhart, in un suo sermone asserisce che “i giusti non hanno assolutamente alcuna volontà; cosa Dio vuole, ciò è per loro del tutto eguale, per quanto grande sia l’avversità”. Occorre dunque disporsi di buon grado a seguire l’opzione cristica che prevede il: “non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Cfr Lc 22, 42). Ciò comporta la rinuncia ad ogni pretesa che le cose vadano come vuole il nostro ego e la parallela rimozione della sfiducia nei confronti delle situazioni da noi ritenute aprioristicamente negative.
In quest’ottica è necessario, al contempo, praticare l’abbandono di tutto quanto non sia essenziale. Ed esso, scrive Fénelon, “non è altro che l’abnegazione o rinuncia a noi stessi che Gesù Cristo ci chiede nel Vangelo dopo che abbiamo abbandonato tutto all’esterno” (Cfr. Mt 16,24-25). Ancora un gradino indispensabile all’ascesi spirituale è la cosiddetta disappropriazione delle virtù, la quale altro non è: “che la rinuncia ad ogni compiacimento, a ogni consolazione e a ogni interesse proprio nell’esercizio delle virtù tramite il puro amore”.
Il Nostro ritiene infine fondamentale la contemplazione passiva, ossia il puro abito contemplativo: “senza attività o sollecitudine”. Tutto ciò può condurci a quello che l’autore chiama lo stato di trasformazione ovvero di unione con Dio, come ebbe a testimoniare l’Apostolo delle genti, asserendo: “Io vivo, ma non sono io, è Gesù Cristo che vive in me” (Cfr. Gal 2,20). È il raggiungimento della paolina unitas spiritus, allorquando ‒ scrive ancora Fénelon citando una frase della mistica Caterina da Genova ‒ l’anima dice: “Non trovo più un io, non c’è un altri io se non Dio”.
Concludendo, come precisa Vannini nella sua estremamente puntuale e ricca Introduzione a La vita interiore, bisogna tuttavia convenire che nell’opera féneloniana si scontrano due diverse concezioni del cristianesimo. “Da una parte si ha infatti un cristianesimo del rimando all’Altro, con una fede intesa essenzialmente come credenza; dall’altra un cristianesimo come esperienza dello spirito, qui ed ora, con una fede che è essenzialmente conoscenza dello spirito nello spirito”. Purtroppo il teologo francese non aderisce davvero, o quanto meno sino in fondo, alla seconda concezione, essendo egli sempre rimasto un uomo di Chiesa, incapace di prendere le distanze dal credo e dai dogmi di quest’ultima. Perciò, osserva ancora il curatore/traduttore, Fénelon finisce col: “ripiegare su un’antropologia che non è più mistica, nel senso forte di spirituale, ma ormai solo psicologica”.
François de Fénelon, La vita interiore, a cura di M. Vannini, Le Lettere, 2024, pp. 219, euro 21,00
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