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La surreale animazione di Miyazaki e Takahata

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di Gildo De Stefano

Dopo il successo editoriale della prima edizione del libro di Enrico Azzano e Andrea Fontana dal titolo “Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata”, l’editore milanese Bietti ha pensato 2 anni dopo oculatamente anche all’edizione economica, con utili aggiornamenti da parte dei due autori. Il tema trattato ha ottenuto un incremento di interesse da parte degli aficionados del genere cinematografico alla luce della recente scomparsa del regista giapponese Isao Takahata, figura fondamentale non solo per lo sviluppo degli anime, ma soprattutto per la loro diffusione in Occidente. Le sue opere, apprezzate da giovani e adulti, hanno fatto crescere intere generazioni di appassionati in tutto il mondo, contribuendo in maniera decisiva all’evoluzione dell’animazione giapponese e offrendole uno stacco netto dallo stile americano. Bisogna risalire al ’68 per il suo esordio alla regia, i cui racconti sono affrontati con toni epici e lentezza della narrazione, ma già in quest’opera si evincono alcuni elementi formali tipici dello stile moderno del regista nipponico, come un target più adulto, il desiderio di realismo e la conseguente attenzione posta sull’introspezione. Inoltre, ad affiancarlo nella realizzazione, troviamo un giovane disegnatore di Tokyo che da lì a breve sarebbe diventato il più grande esponente al mondo dell’animazione nipponica, Hayao Miyazaki, di cui Azzano e Fontana nel libro descrivono la superba tecnica ma soprattutto il loro rapporto di collaborazione, che innesca anche una profonda e amichevole rivalità, a tal punto da far guadagnare a Takahata l’appellativo di “Paku-san” per l’abitudine di mangiare di corsa in ufficio.
L’essenza del libro edito da Bietti è l’analisi del fatidico Studio Ghibli, le cui fiabe parlano di emozioni, infanzia e solitudine, temi che spesso si prestano ad altre tecniche cinematografiche. È lecito chiedersi cosa rende tanto azzeccata la scelta dell’animazione, in special modo se guardiamo ai micro-elementi, il più importante è sicuramente il character design, peculiarità in cui l’emozione è subordinata all’arte dell’animazione. Infatti i personaggi del duo artistico nipponico hanno volti plastici, classici occhi enormi, probabile retaggio della saturazione caratteriale disneyana, e diventano mano a mano sempre più espressivi. Questo aspetto si lega a un’altra caratteristica fondamentale: l’uso della ‘makura kotoba’: tipica figura retorica normalmente usata nella poesia giapponese per introdurre una nuova serie di parole, qui si trasforma in una scena di transizione e riflessione, un momento di pausa in cui non succede nulla fra ciò che è appena avvenuto e ciò che sta per accadere. Un tecnica, questa, che fornisce ai loro film un ritmo preciso e una sorta di raccoglimento, qualità necessarie affinché lo spettatore riesca a comprendere ed apprezzare fino in fondo il messaggio della scena appena rappresentata. In questo modo, nei film dei 2 cineasti giapponesi le scene di vita quotidiana –must basico della loro regia/narrazione– raggiungono una fluidità e un livello tale di realismo da trascorrere senza che lo spettatore ne risenta minimamente.

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