Lo Zibaldone
La memoria dei senza nome: poesie tra Storia e presente
di GISELLA BLANCO
Sin dall’esergo di Walter Benjamin (“Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica”), è evidente come, nella silloge La memoria dei senza nome di Luca Ariano (con prefazione di Alberto Bertoni e intervista conclusiva di Luigi Cannillo, il Leggio Editrice), si dia rilievo alla possibilità – che è anche un dovere – di dar voce alla memoria di tutti quegli attori sociali rimasti nel silenzio. Un intento dal valore fondativo, storico, riconciliativo del sé con la storia e della storia con i molti sé (e se) che l’hanno creata.
Un libro “teso e compatto” lo definisce Bertoni, in cui lo slancio etico si fonda sulla narrazione di esperienze indirette ma poste in chiave reale – o realistica. La “conquista dell’anonimato”, come chiosa Bertoni, è l’acquisizione della dignità a partire dal basso, dalla verità di tutti i giorni.
Una poesia intimamente polifonica, priva di retorica e di accessi linguistici complessi, in cui la Storia e le storie educano alla mancanza di riferimenti statici e stereotipati, di punti di vista univoci e cristallizzati. L’impronta orale di questa poesia, lungi dall’essere aulica e demagogica – cose che vanno molto bene insieme a certe latitudini diplomatiche – viene restituita in versi attraverso un linguaggio piano, colloquiale, onesto al modo di Saba. Una tale linearità non riduce, però, la forza drammatica dell’enunciato, rafforzato da un’analisi di stampo materialistico storico e dialettico, che si muove per strutture e sovrastrutture sociali.
Scorci di vite con nomi, occasioni, maestri e discepoli, realtà quotidiane: il tempo fugge, “nemmeno il tempo di una cartolina”. Le sensazioni minimali, eppure enormi in chi le percepisce, sono rese dalla struttura grammaticale e dall’interpunzione (esemplari i puntini di sospensione dal tono drammatico e drammaturgico pasoliniano), ricreando un crocevia di vite che nessuno conosceva prima dell’atto letterario. Atto letterario che si fa atto sociale, civile, partigiano. Un tempo ciclico, stagionale, ritorna sempre uguale per gli operai delle micro-scene rappresentate: è una poesia per i lavoratori ma non una poesia operaia, uno sguardo che non si sente estraneo, convive nella difficoltà, si oppone al silenzio del dimenticatoio sociale.
I sogni perdurano sul tracciato di un’umanità mortificata ma non per questo meno umana, e c’è un nome che ricorre, occorre, rincorre la coscienza di chi legge e si chiede chi sia. La domanda è uguale per tutti, nominati e innominati, famosi e sconosciuti: chi siamo? Eppure, i sogni, questi stessi sogni sopravvivono anche se ognuna di queste vite al margine è ben consapevole del suo disagio: “mai parteciperai alla festa”, come un refrain lugubre e tormentoso cui alcuni più di altri non possono sottrarsi.
I grandi poeti (Raboni, Bacchini, Merini, Sereni, Gatto, Sbarbaro etc.) sembrano dei sorveglianti silenziosi, morti che parlano una lingua sempre viva dentro città che sono simboli cosmopoliti e insieme provinciali, raccordando le due dimensioni della grandezza e della relatività in un solo, proteiforme sentire.
Tra dialoghi che sembrano anche pastiche e caricature della lingua comune – comune ma mai povera o impoverita come la vorrebbero definire alcuni contemporanei pessimisti –, i versi brulicano di micro-eventi, piccole immagini e cose di tutti i giorni da cui affiorano scorci del passato drammatico che appartiene a tutti, in una periferia emotiva che non si sa dove finisce. Un’altra domanda incombe nella testa: “cosa rimane?”. Cosa c’è dopo il crollo della fede, quando vacilla il ricordo e non si sa bene dove si è, dove si rimane o, ancora più in là, dove si può perdurare?
Gli innesti con la canzone d’autore (Guccini, Vasco) rendono i testi consonanti, morbidi e duri come il pop italiano più efficace e immortale.
Gli uomini del sud, espatriati in un nord mai del tutto accogliente, continuano a desiderare la terra dei padri, ma è una terra che non esiste, una stagione perduta per sempre. La circostanza letteraria di unire elementi ipercontemporanei (Netflix, Facebook, i centri commerciali, i fast food) a un contesto dal sapore storicizzato è una caratteristica che rende particolarmente pregnanti i testi, e che avvalora la tesi del materialismo storico, di come la società sia dominata dagli impulsi economici talvolta più spietati che hanno soppiantato fabbriche con negozi, entrambi simboli di diverse forme di sfruttamento sociale. Il passato e il presente, la guerra e il panorama postbellico si alternano tra flashback, racconti memoriali e momenti attuali per rendere il tempo trasversale, diacronico, anch’esso relativizzato eppure sempre attivo come bagaglio collettivizzante. L’amore rappresenta una forma strenua di resistenza tra gli affanni e le delusioni della vita, le cose incompiute, i desideri mai realizzati.
Arresto del sistema, la seconda sezione, riporta a un clima più moderno, i personaggi invecchiano, si ammalano, risentono di quel passato che avvilisce i corpi e rende diversi dai tempi andati di cui si ha una memoria parziale. Le parti conclusive dei testi spesso si affidano a metafore paesaggistiche trasfigurali, aumentando la presenza della dimensione del tempo e dello spazio sensibile (luci, clima, colori) nel contesto antropologico-comportamentale. Il dolore è un bagaglio che trasmigra da uomo a uomo, è lo stesso e sempre diverso, riluce ogni volta che viene accolto e non rinnegato.
Anche la sezione Anime digitali sembra voler polemizzare sulla sclerotizzazione degli ingranaggi automatici della digitalizzazione all’interno e parallelamente alla materia umana etica, alle morti, agli amori.
In quest’opera, i riferimenti – anche minimi, ed è quel che basta – a tematiche civili sempre diverse sono svariati: la moda, la realtà digitale che sembra contrastare con quell’umanità analogica ancora preponderante, il cibo e le mode alimentari, la dimensione commerciale della vita, le foto, i video e la supremazia (almeno parziale) dell’immagine, gli scontri generazionali (e sempre più annosi anche fra i critici letterari), il linguaggio millennial e la koinè, il genius loci e la necessità di spaziare e non appartenere a nessuna terra – parallela a una globalizzazione che ingloba senza diversificare. “Quale treno prenderà” questo modo di vivere, tutto contemporaneo, agghiacciante e ancora pieno di potenziale?
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