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Lo Zibaldone

La cognizione del male

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di Francesco Roat

Male è termine polisemico. Con esso si può indicare una situazione negativa (vive male, funziona male, è giudicato male), un dolore fisico o psichico, un comportamento moralmente deprecabile e infine un ambito che potremmo chiamare metafisico: rappresentato ad esempio nel mondo cristiano dal demonio. Mille sfumature e declinazioni ha poi il male: esiste quello soggettivo della sofferenza individuale per cui, rispetto alla medesima patologia, essa fa soffrire di più una persona che un’altra; c’è poi quello oggettivo, innegabile e riconosciuto unanimemente, come il crollo di un ponte o un terremoto catastrofico. Per non parlare del male di vivere o malessere esistenziale ‒ dovuto all’impossibilità/incapacità di trovare un senso alla propria vita e al mondo ‒ a causa del quale Leopardi ebbe pessimisticamente a scrivere: “Tutto è male (…) che ciascuna cosa esista è un male”.

Da sempre l’uomo si è interrogato intorno al cosiddetto male, giacché ‒ come osserva Andrea Toniolo in un saggio sull’argomento ‒, esso non solo: “urta il ritmo normale del vivere”, ma mette in crisi “ogni pensiero”; soprattutto in relazione al fatto che ci sentiamo spesso impotenti e disarmati d’innanzi al dolore che provoca: soprattutto nei confronti degli innocenti o degli infanti. In ultimo, per chi si professa religioso, esiste anche un problema ulteriore. Infatti la domanda che questi si pone è sempre la stessa: se c’è un Dio, perché esiste il male e da dove proviene? (si deus, unde malum?). È il tema della teodicea o giustizia divina, che fin dal tempo di Giobbe sembra vacillare se un uomo irreprensibile e devoto viene colpito dalla sventura.

Inoltre ‒ puntualizza l’autore ‒ assume via via più rilievo: “il male nella sua dimensione economica, collettiva ed ecologica: le diseguaglianze sociali, l’uso iniquo della ricchezza naturale, la logica sfrenata del consumo e del mercato”. E le risposte al male si riducono in gran parte dei casi alla sua rimozione o a forme di anestetizzazione psicologica: evito di pensare a quanto non sta andando affatto bene, mi consolo dai guai, miei o altrui, navigando su Internet o guardando programmi di facile intrattenimento alla TV. C’è poco da sperare però che questi o analoghi mezzi distrattivi costituiscano una soluzione adeguata al problema del male con cui tutti presto o tardi, volenti o nolenti dobbiamo pur misurarci. A meno che non lo si faccia in modo a dir poco allarmante: subendo cioè il fascino delle azioni malvage e venendo attratti da delitti e crimini; se non altro come spettatori di filmati all’insegna di orrorismo e violenza.

Attenzione poi a non semplificare donde abbia origine il male compiuto dal singolo. Certo: chi tortura o stupra è senza dubbio colpevole, ma da cosa deriva tale condotta aberrante e perché si procura in modo consapevole il male altrui? Facile rispondere: si tratta di delinquenti, asociali, farabutti, gente da sbattere in galera. Giacché ‒ nota Toniolo ‒ il male subìto “è spesso all’origine del male causato” e in certi casi, più forti del libero arbitrio si rivelano: “i condizionamenti a livello soggettivo, psichico, e la responsabilità si riduce o è assente”. Ancora, se tra le pulsioni domina l’eros della distruzione: “L’altro diventa oggetto di odio, che suscita anche l’odio di sé; la sofferenza del non potere amare ed essere amato crea una patologia, un circolo vizioso che alimenta l’agire distruttivo”. Ciò non significa giustificare il malvagio ma solo cercare di comprenderlo. Ed ovviamente il male smisurato di genocidi e/o stermini: “non si giustifica con patologie, ma con ideologie”.

Vi sono altresì dei mali collettivi considerati (purtroppo) necessari per difendere la propria patria o collettività; si pensi solo alla pena di morte o all’ossimorica ingiunzione latina sempre così attuale: si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra). Ma è opportuno ‒ vista l’attualità inquietante del conflitto locale in Ucraina, a rischio di espandersi in conflitto mondiale ‒ porsi degli interrogativi cruciali: l’opzione guerra è un male davvero necessario? E alla violenza è bene rispondere soltanto con altra violenza? Quesiti a cui non è facile trovare una risposta esaustiva, ma che è indispensabile la coscienza di ognuno si ponga, giusto per l’urgenza di innalzare un argine al male che gli uomini ‒ a differenza degli animali, assai poco inclini alla violenza intraspecifica ‒ tendono a recare ai loro simili.

Un’ultima considerazione nei confronti di quella che Toniolo chiama la regina del male, cioè la morte e la sua inaggirabile tragicità, riportata di recente al centro dell’attenzione mass-mediatica dalla pandemia del Covid-19. Morire è destino comune ai viventi e ad esso corrispondono tre ambiti. Il primo è quello di un dolore biologico inguaribile ma che deve comportare ‒ ove possibile ‒ il prendersi cura del malato terminale quantomeno tramite le cure palliative. Il secondo è legato alla rappresentazione psichica dell’essere morituri: un senso di profondo disagio provato dai più nella prospettiva di dover affrontare quello che Blanchot ha chiamato: il passo al di là. Il terzo, che potremmo chiamare di natura spirituale, è segnato dall’angoscia o in parallelo dalla speranza rispetto ad un exitus che molti vivono come intollerabile ed altri come l’ingresso in una diversa dimensione: nella vita eterna, per dirla cristianamente. Comunque la si pensi, credo sia condivisibile ritenere la morte un mistero e non soltanto una fine. Perfino dal punto di vista scientifico essa appare infatti una sorta di metamorfosi, in quanto nulla di ciò che esiste si annichilisce ma solo si trasforma.

Andrea Toniolo, Male, Edizioni Messaggero Padova, pp. 116, euro 12,00

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