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Lo Zibaldone

“In buone mani”: la forza che si scopre nel dolore

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di GISELLA BLANCO

Un diario intimo eppure ampiamente condivisibile, l’excursus diacronico dell’esperienza particolare e commovente che Michele Greco ha deciso di mettere nero su bianco e di consegnare alla memoria dei lettori, In buone mani (Scalpendi Editore), non a caso. “Non c’è legame che non comporti rischio e l’amore non è un premio se non porta con sé la possibilità della perdita”: così l’autore, nell’incipit, esprime sin da subito lo spirito che attraverserà tutto il libro, e la sua storia personale.

La nascita di un figlio è un evento che stravolge la vita del nucleo familiare e su cui le aspettative genitoriali sono altissime, fino al punto di non poter nemmeno immaginare la possibilità di un male imminente. Matteo, il secondogenito appena nato del protagonista, è un bimbo bellissimo che, a pochi giorni di vita, ha una emorragia cerebrale per la quale viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva neonatale del Bambin Gesù di Roma, in una stanza la cui finestra si affaccia direttamente su San Pietro. Il dolore dei genitori è quello, sconfinato, di chi non può difendersi da un pericolo sconosciuto e improvviso, e vive questa condizione come una sottrazione forzata da “un altrove di festa”, e cioè il privilegio di poter godere serenamente della nascita del proprio bambino, gravemente precluso all’improvviso.

Nella concitazione di quelle prime ore di ricovero, è difficile comprendere le risposte dei medici alle domande più importanti – e più difficili. La sopravvivenza del bambino non appare più come una certezza, un dato di fatto, una necessità inconfutabile e dovuta. Anche il primogenito Giovanni inizia a fare domande spinose sul futuro del fratellino, domande a cui probabilmente nessuno può rispondere. Quello è l’inizio di un lungo iter ospedaliero, e prima di tutto psicologico, di una famiglia che viene costretta a esporsi a una delle vicende più difficili della vita: la fragilità del figlio, la possibilità che i genitori possano sopravvivergli. Una cronaca familiare, narrata in prima persona, che sovrappone piani temporali diversi, ripescando dalla memoria il racconto della sorella disabile del narratore (autrice del disegno mosaicale presente in copertina), e intersecando alla sequenza di eventi della malattia del figlio l’esperienza della degenerazione contemporanea della salute del nonno.

Roma affiora dal testo come un teatro mai scontato, la cui bellezza risiede perfino nei dolori più acuti, ma sono i continui rimandi alla città natale dell’autore, Palermo, che movimentano la narrazione inseguendo una vita emotiva che unisce luoghi e tempi diversi.

La malattia, in questo libro, non è un percorso di grandezza o di eroismo, non appare come prescrizione destinale che costringe all’estremo sforzo della ribellione. Non è un ghiribizzo prepotente del fato: è un evento che capovolge i punti di vista sull’esistenza, sulle cose e sulle persone, e che spinge a riflettere sulle sottili connessioni tra il passato e il presente. Sono queste, infatti, a far in modo che si possa ancora imparare l’arte della pazienza, unita alla virtù di continuare a meravigliarsi della vita (e di sé stessi). Anche quando sembra perduta ogni possibilità di gioia.

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