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Il quinto punto cardinale

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Il quinto punto cardinale. Ragionamenti en plein air su Alba di Thomas Tsalapatis  

di Donato Di Stasi

 

 

  1. Leggo con una certa meraviglia Alba (traduzione italiana a cura di Viviana Sebastio, prefazione di Davide Rondoni), un curioso prosimetro in cui le immagini evocate saltano liberamente da un piano simbolico all’altro, generando continue emozioni, oltre che sospensione, attesa, fascinazione.

Le 62 pagine del libro vanno al di là del genere strettamente poetico, abbattono perimetri letterari e convenzioni: la scrittura impone la sua semplicità disarmante che bascula fra notazioni realistiche e accensioni visionarie, fra malinconie elegiache e asprezze espressionistiche (“Nelle aiuole…spuntano gesti e i cortili sono disseminati di denti”).

Potremmo definire queste pagine poema d’amore e poema del nostos, narrazione metafisica e racconto paradossale, antropologia dello sguardo e notazione oggettiva: Alba è un poliedro che non smette di rifrangere la luce, di attrarre e respingere il lettore in un alternarsi di morbide ombre e lancinanti chiarori (“Fiamma pura e cenere/Persone, pagine e alberi/Mentre scrivi/Dal basso verso l’alto/E la pagina in direzione contraria brucia”).

Alba è contemporaneamente un personaggio lirico (“Questa ragazza di nome Alba è/Nell’oscurità rarefatta/e il suo abito si scioglie come un ordine) e una città (“A quest’ora Alba dorme il suo intenso sonno assonnato”). La giovane donna e la città affiorano come un ampliamento della coscienza, diventano figure universali in cui vibrano le corde di una bruciante grecità.

La giovane donna e la città sporgono sullo stesso vuoto, inseguono illusioni: un desiderio dopo l’altro, un desiderio dentro l’altro, fino a occupare tutto lo spazio possibile e tutto il tempo disponibile alla ricerca di un senso che si è perso nei recessi dell’interiorità individuale, negli angoli più remoti dei singoli quartieri (“Allora non lanciare pietre al cielo, potresti vederle venir fuori veloci dalla terra//o persino//dal tuo petto”).

 

  1. Pagina dopo pagina il lettore si rende conto che Alba è una città immaginaria, in cui entrare con circospezione, facendo attenzione a non far evaporare i suoi muri di fumo, perché proprio questa inconsistenza la rende un solido luogo di scambi, percorsi e destini.

Alba è una città-organismo, soffio vitale, pneuma, cuore pulsante che dà vita a ogni sua parte: città-anima che si sottrae all’ossessione dell’accumulo, alla quantità spacciata per qualità, agli oggetti e alle merci elevati a inconsutili feticci (“Non il macilento poco dell’autarchia, ma il poco che diventa tanto quando il tanto non basta”).

È giovedì in questa città che non ha giovedì, che ha solo salite e nemmeno una discesa. È sempre giovedì in questa città dove gli abitanti, da un pozzo comune, issano un secchio stracolmo di sangue. Sono gli stessi abitanti che non hanno volto: per possederne uno, aspettano che uno straniero venuto da fuori ceda loro il suo volto. Solo nei quartieri di Alba la pioggia bagna l’interno delle case, lasciando all’asciutto facciate e strade in un rovesciamento di interno/esterno che allude al mito eliotiano della terra desolata, alla desertificazione della coscienza collettiva, al dilagare degli uomini di paglia che hanno scalzato l’homo faber della morente civiltà umanistica.

Alba, città-museo, luogo di accadimenti straordinari che spezzano la ripetitività, l’angoscia del sempre uguale, il declino verso un cosmetico e plastificato non-luogo.

Nella città-museo si succedono il Lunedì delle parole, il Martedì delle cose, il Mercoledì delle Ceneri (ancora Eliot), il Giovedì che nega se stesso, il Venerdì delle immagini riflesse, il Sabato delle anime, la Domenica della fine.

Alba, città-giardino e città inferno, città degli attimi sospesi e dell’eterno ritorno (in un quartiere abitano solo multipli del filosofo Nietzsche): tra il primo e il settimo quartiere colpisce la presenza del quinto, costruito fra due parentesi, tutto racchiuso dentro una pausa. Oltre ai quartieri numerati spunta uno strano quartiere senza numero, indecifrabile, elastico: tanto strambo da sommare i suoi isolati, mentre li sottrae e li inabissa; così duttile da allargare la sua superficie, mentre la restringe e la riduce a una linea.

Soggettività lirica e oggettività matematica vengono intersecate in modo originale, rendendo un doveroso omaggio al testo eponimo di riferimento, Le città invisibili di Italo Calvino.

 

  1. Thomas Tsalapatis, poeta ateniese, classe 1984, è una voce giovane e interessante, dentro la quale echeggiano autori che abbiamo lungamente amato come Ghiannis Ritsos e Odisseas Elitis.

Con la sua scrittura oppone la dinamicità del mito alla gravezza del presente: non stupisce allora vedere Narciso, l’eterno innamorato dell’immagine del sé, uscire dal lago e diventare Proteo, il dio della metamorfosi, della coscienza plurima, dell’io che tenta di sfuggire alla surmodernità soffocante e stagnante.

Thomas Tsalapatis sceglie la modalità del sogno e della visione: dissemina di segni il suo prosimetro, dando l’impressione di scrivere in una sorta di trance o di visitazione. Ne deriva una versificazione ispirata e sincera, mai cerebrale, né tantomeno costruita a partire da una limitante tesi poetologica. Si susseguono giri di frasi sul doppio registro dell’elegia e del paradosso logico, una riuscita mescidazione di descrizione e argomentazione, di sentimento dell’esistenza e riflessione accorta sull’Oltre (“Quanti applausi stasera per rinviare una ruga, quanta immagine per rinviare la nostra immagine. In questo museo le persone sperano ciò che dimenticano e così restano immobili. Dentro a cotanto vuoto imparano a stupirsi. E allora esposti a questo meravigliarsi appena coniato, le persone finiscono per diventare pezzi da museo”).

Thomas Tsalapatis crede nella forza dell’utopia, nella possibilità di cambiare il mondo, cambiandone il linguaggio, così gli edifici di Alba che ha ideato, paghi di svettare, di bucare in alto, si tengono a debita distanza dalla prosa dei commerci, dall’idolo oscuro del denaro che cammina a fianco di ogni passante. Le parole collocate un po’ più in là del reale appaiono inequivocabili, dette una volta e ripetibili per sempre (è l’incanto della poesia).

Se non ricorresse a uno sguardo così penetrante e acuto, l’Autore avrebbe creato un luogo di carta come infiniti altri, una mera curiosità, l’oggetto di un interesse aneddotico per le eccentricità che caratterizzano Alba (“neve senza freddo”, l’alba con i suoi denti rotti”, “i percorsi durano sempre 10 minuti. Tutti i percorsi.  A prescindere dalla distanza”).

Senza la potenza trasfigurante di una scrittura così attenta a distillare l’essenziale, rimarrebbe il solito stigma del già sentito, del transito muto delle parole, la frammentarietà inconcludente dei significati.

L’Autore concepisce la sua città come un centro di gravità, un punto-labirinto da cui ripartire verso un nuovo giorno.

 

  1. Dopo la Fortezza Bastiani di Buzzati, un altro luogo ci sconcerta per la sua imprevedibilità, anche questo a margine di un deserto. Alba dice tutto di sé, tace tutto di sé, si offre e si nega, si mostra e si nasconde, accoglie con sguardo aperto e respinge con malcelato egoismo. In queste irrisolte dicotomie è il senso della nostra complessa e sciagurata contemporaneità.

Thomas Tsalapatis ha costruito per il lettore una città-Oltre, una magnifica città-miraggio situata in direzione di un quinto punto cardinale, eppure più vera delle città cablate in cui corrono i nostri sterili pensieri elettrici.

Alba

Thomas Tsalapatis

Mama Edizioni, 2022

 

 

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