Lo Zibaldone
Il popolo dei bambini
di Francesco Roat
Non si può che concordare con la neuropsichiatra infantile (e poetessa) Margherita Rimi su un dato irrefutabile, ovvero che quello dei bambini sia non solo un popolo, il quale esiste da sempre e abita in tutto il pianeta, ma soprattutto sul fatto che essi: “scardinano l’idea di popolo così come l’hanno concepita gli adulti solo per sé stessi”. D’altronde l’infanzia incarna un concetto di popolo che è il più universale possibile ed al contempo il più peculiare. Per non dimenticare l’importanza fondamentale dei bambini riguardo alla specie homo sapiens: senza di essi, infatti, l’umanità cesserebbe di esistere.
Ma quale è, secondo Rimi, la caratteristica che contraddistinguerebbe la popolazione infantile, ancor più di quanto non lo faccia tra gli adulti l’elemento comune/condiviso della lingua o ancor meglio della cultura di appartenenza? Essa è costituita dal gioco: fattore trasversale che non conosce barriere di etnia, ceto o colore della pelle e rappresenta il vero e proprio “emblema dell’identità dei piccoli”. In questo senso, particolarità davvero felice del gioco è l’essere elemento precipuo di socializzazione tra i cuccioli umani; essendolo del resto, in varie occasioni, pure fra gli adulti (quando esso non si trasformi in mera competitività, spesso denotata da aggressività), i quali avrebbero molto da imparare dai piccoli, mentre ritengono di esser solo loro ‒ i grandi ‒ in grado di insegnare, educare, trasmettere saggezza.
Dice bene Rimi ‒ ancora intorno al tema del gioco ‒ che, diventando adulti, è naturale esso assuma via via sempre meno rilievo, ciononostante: “custodendone lo spirito e la fede nel bambino o nella bambina che si è stati, si può trasformare in una carica di libertà, resistenza verso la vita, una carica di autenticità di pensiero, di meraviglia e inventiva necessaria alla società”. Anzi alla civiltà/umanità intera, di cui i nostri pargoli sono embrioni vivaci. Purtroppo la cosiddetta civiltà dei bambini è un costrutto culturale formulato dagli adulti che da sempre stabiliscono ‒ attraverso le varie istituzioni educative: in primis la famiglia e la scuola ‒ cosa è bene apprendere e come è bene comportarsi da parte di quanti adulti non sono.
Alla base di ciò sta l’erronea idea pedagogica: “che il bambino debba essere preparato al mondo degli adulti e che quindi debba essere «corretto» per diventare grande”. In ambito scolastico, inoltre, troppi testi dedicati ai fanciulli (specie nella scuola primaria) parlano una lingua che non è quella dei bambini, nonostante spesso cerchino pedestremente/leziosamente di imitarla. Oggi come un tempo, poco o nulla si punta invece sul gioco, il quale costituisce l’occupazione preferita/prevalente dei piccoli e ‒ nota la nostra neuropsichiatra ‒ risulta determinane per il loro sviluppo psico-fisico ed intellettivo. Oltre agli insegnanti, gli stessi genitori tendono altresì a svalutare tale dimensione/occasione educativa, rivolgendo troppe volte ai propri figli il classico monito: smettila di giocare e fai i compiti!
Di contro i grandi comprano sempre più ai piccoli un certo tipo di giocattoli ‒ puntualmente “strutturati, e preordinati a immagine del mondo adulto” ‒ facendo di loro già in tenera età dei novelli consumatori. Viene poi a scarseggiare non solo il gioco di gruppo, che favorisce le relazioni tra i bambini, ma pure il cosiddetto gioco simbolico, che è strumento di trasformazione e creazione di nuovi giocattoli. Così una scopa può venir cavalcata come un destriero oppure permette di volare con la fantasia. Talvolta, osserva ancora Rimi, non c’è neppur bisogno di un oggetto da manipolare, quando: “i bambini nel gioco simbolico fanno finta che ci sia: come quando fingono di bere o di mangiare (…) o di cullare come se tenessero in braccio un neonato”. Né va dimenticato infine il ruolo fondamentale del gioco nell’ambito psicoterapeutico, tramite il quale, ad esempio, un bambino abusato/maltrattato può esprimere/testimoniare con disegni e/o con l’ausilio della componente mimico-gestuale la drammatica esperienza capitatagli.
In un certo senso potremmo perfino ribaltare l’opinione pedagogica tutt’ora dominante, secondo la quale soltanto i grandi ammaestrano i piccoli, nell’auspicabile contrario per cui sono (dovrebbero essere) i bambini ad insegnarci l’innocenza, la freschezza di uno sguardo privo di apriorismi, la disponibilità all’incontro con il prossimo, la fiducia, e quanto altro ancora. Essi tuttavia dipendono da noi: hanno bisogno di cura, attenzione, amore e rispetto per poter crescere in modo ottimale. Essi sono certamente depositari di una civiltà degna senza alcun dubbio di tale nome, ma: “è necessario custodirla e preservarla da distorsioni e falsificazioni, «rivestimenti», operati dagli adulti”.
Per conseguire tutto ciò, occorre modificare l’idea diffusa un po’ ad ogni latitudine che il bambino sia appena un adulto in miniatura o peggio: un essere “incompiuto”, manchevole e/o censurabile. Ma se una tale mentalità persiste, si/ci interroga Margherita Rimi: “non è forse perché, in fondo, vogliamo tenere lontane alcune paure, alcuni sentimenti, il nostro stesso essere stati bambini? Quello che i bambini rappresentano? Forse l’infanzia è un mare di insegnamenti, di specchi di differente umanità dentro i quali è difficile guardarsi riflessi? Forse perché i bambini ci ricordano quanto siamo lontani dal loro modo di essere e possono rappresentare una forma di sovvertimento del nostro modo di pensare e dell’ordine costituito? Forse perché ci costringono a rivedere la priorità dei valori su cui si sostengono i modelli dominanti nel mondo degli adulti, fiaccati dalla corsa al danaro, al successo e dalla vanità dei loro desideri?”
Ritengo proprio si debba rispondere con un deciso sì a tutte queste domande.
Margherita Rimi, Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia, Marietti Editore 2022, pp. 210, euro 15,00
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