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Lo Zibaldone

I primi 100 di Bufalino

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di Marta Galofaro

Nasceva il 15 novembre di cento anni fa uno dei più grandi scrittori e poeti del Novecento, Gesualdo Bufalino. Nell’anniversario della sua nascita la Fondazione a lui dedicata ha organizzano una serie di eventi purtroppo rinviati a causa della pandemia.

Ha aperto la rassegna la presentazione del libro Gesulado Bufalino e la tradizione dell’elzeviro, poi è stata presentata un’edizione speciale de L’amaro miele, a cura del direttore scientifico della fondazione, Nunzio Zago, arricchita dai dipinti di Alessandro Finocchiaro, ispirati ad alcune liriche della raccolta. Un canzoniere che riserva sempre nuove ed intense emozioni, testimonianza complessiva della carriera poetica dello scrittore. La stessa che Bufalino aveva deciso di abbandonare, come racconta Giulia Cacciatore nel suo interessante articolo La “conversione” del ’63. Gesualdo Bufalino fra poesia e prosa, a seguito di un breve e inedito scambio epistolare con il celebre critico Luciano Anceschi incontrato a Pesaro. Lo scrittore gli aveva affidato un fascicolo contenente le sue poesie per avere un parere. Anceschi gli rispose pochi giorni dopo con una breve lettera in cui riconosceva allo scrittore “l’«acutezza» delle sue intuizioni poetiche, la sua sensibilità letteraria, nonché la raffinatezza della sua erudizione, rinviando, tuttavia, a un eventuale incontro l’analisi approfondita dei versi”. Bufalino la interpreta come una bocciatura e la giustifica con la «sostanziale modestia dei [suoi] risultati» che lo porta ad una «salutare conclusione» dell’attività poetica, come emerge dal contenuto della risposta al critico pochi giorni dopo, il 4 aprile 1963. Decise dunque di abbandonare definitivamente la poesia per la prosa. Preferì “tradurre, postillare organizzare cose d’altri”, dedicandosi alle traduzioni francesi di Baudelaire e Toulet nonché all’ambizioso progetto del Libro dei Libri, un centone di citazioni della letteratura universale di tutti i tempi.

Nonostante la scelta di dedicarsi al romanzo, Bufalino continuò a considerarsi un poeta: “Non faccio distinzione fra l’una e l’altra [poesia e prosa]. I libri che scrivo credo siano libri di poesia. D’altra parte ho cominciato componendo dei versi e per moltissimi anni non ho scritto prose. L’amaro miele è stata la mia unica opera per decenni ed io mi consideravo soprattutto un poeta. Poi ho pubblicato invece il romanzo [Diceria dell’untore] e il romanzo ha avuto successo. Tuttavia L’amaro miele è forse il libro a cui mi sento più legato nonostante i successi siano andati in tutt’altra direzione.”. Eppure del suo romanzo nessuno era a conoscenza, nemmeno Nunzio Digiacomo, compaesano collega e scrittore, ma soprattutto suo intimo e carissimo amico, di cui era stato compagno di scuola dalle elementari fino all’Università, a Catania, fatta eccezione per due anni del liceo (a Comiso non era stato ancora istituito il triennio superiore). “A Catania furono ospiti della gloriosa Pensione Cacciola, godevano delle delizie gastronomiche della Locanda don Antonino, nei pressi di Sant’Agata, come la ttriaga ccu’ du’ sordi ‘i pani (minestra di fagioli barlotti), e solo quando si poteva”. La loro storica amicizia era iniziata con un pugno in pieno volto. Giuseppe Digiacomo, figlio di Nunzio, anch’egli scrittore di saggi, romanzi e raccolte di poesia, impegnato politicamente, assessore, sindaco e deputato regionale, è dal 2020 il presidente della Fondazione. Ha avuto la fortuna di respirare letteratura sin da piccolissimo dato che Bufalino era spesso ospite del padre e, alle volte, anche Sciascia. Racconta lo stesso Digiacomo nel suo articolo Il calcio e la vita, il caos e la morte. Se sotto casa passa Bufalino, che lo scrittore aveva deciso di occuparsi personalmente della sua formazione poetica: “Quando mi parlava di un poeta Gesualdo accompagnava le parole con un movimento ondeggiante, armonico della mano, cioè Bufalino dirigeva, orchestrava le frasi del suo discorso come fossero le note di una sinfonia. Perché lui, quando parlava, era straordinario, la sua cultura riviveva nella sua parola, si rigenerava, non ho più visto né sentito nulla del genere in vita mia, cioè una prodigiosa capacità di far cortocircuitare un patrimonio di conoscenza immerso in un periodare lucido, brillante, magnifico, tutt’altro che un compiaciuto, marcescente, insopportabile armamentario erudito. Non c’era discrasia fra Bufalino che scriveva e Bufalino che parlava di letteratura, c’era armonia perfetta”. Digiacomo lo vedeva passare sotto il suo balcone e sempre agli stessi orari: quelli in cui con abitudine si recava in piazza, all’edicola, in biblioteca, o al Circolo, dove si giocava a scacchi solo per accontentarlo, ogni tanto, dal momento che a scala quaranta perdeva di santa ragione.

Torniamo all’amichevole pugno…Nunzio Digiacomo a due anni era emigrato in America con i genitori che là avevano fatto fortuna e, una volta ritornato in Italia, conobbe tra i banchi di scuola Dino Bufalino che lo prese in giro per la pronuncia delle parole fino a baccarsi un pugno in faccia, a causa del quale cadde in malo modo procurandosi la frattura di una gamba e un amico che, per il senso di colpa, gli restò accanto fino alla guarigione. Divennero così indivisibili e, in seguito, colleghi a scuola. Il loro orario scolastico veniva ogni anno realizzato ad hoc perché Bufalino, che non guidava, viaggiava con Digiacomo: era un prezzo che il preside pagava volentieri pur di non costringere un valido docente, quale era Bufalino, a chiedere trasferimento a Comiso. E chissà che non lo avrebbe seguito anche Digiacomo pur di non perdere quei quotidiani appuntamenti che si erano riservati: il passaggio ogni mattina, eccetto il giovedì, il loro giorno libero, con Bufalino che regolarmente batteva la testa nella cornice dello sportello poi chiuso con “un’insospettabile vigore da forzuto” e Digiacomo che diventava una belva “Di’, ma che cazzo lo sbatti a fare così forte lo sportello!”. Ovviamente il testimone oculare di queste scene era il Digiacomo figlio che immagino sul balcone di casa a sorridere dei due, chinando poi il capo e perdendosi nei suoi pensieri come è solito fare.

Eppure nemmeno Nunzio Digiacomo era a conoscenza di cosa ci fosse nei cassetti di Bufalino. Giuseppe Digiacomo racconta che se qualcuno gli chiedeva: “Quanto ben di Dio c’è nei tuoi cassetti, Dino?” gli rispondeva “Un giorno o l’altro t’invito a far pulizia…”; ma se a chiederlo era  sua madre, per la quale aveva una predilezione, rispondeva semplicemente “Vanità”. Ma suo padre, non era all’oscuro solo del romanzo, come racconta Giuseppe Digiacomo nel suo articolo “Il segreto di Bufalino e il capolavoro nascosto che narrava la Bestia” pubblicato su La Sicilia ma nemmeno della terribile esperienza del sanatorio di cui venne a conoscenza solo per caso, nel ’47, quando i reduci furono sottoposti a una visita medica per la verifica di danni alla salute occorsi in guerra. Mentre il medico gli compilava il referto, gli occhi di Digiacomo si spostarono sulla catasta dei fascicoli personali dei soldati. Quello del suo amico Dino aveva lo stampiglio rosso TBC. Eppure, scrive Giuseppe Digiacomo “a pensarci bene, quell’esperienza di strascichi nella vita di tutti i giorni di Bufalino ne aveva avuti. Intanto, salutismo assoluto: la riduzione a grado quasi zero di qualsivoglia elemento che potesse logorare la sua salute: niente caffè, niente alcol, nessuna debolezza per i piaceri della tavola, tranne una che non vi racconto. Rarissimamente una sigaretta, fino a una certa data: strano, ma è così. Poi la collezione di tutte le recensioni d’argomento sanitario, farmaceutico, salutistico allora pubblicate in una rubrica dedicata nel settimanale Tempo: quindi, era aggiornatissimo e sovente lasciava interdetto il suo medico di famiglia il quale, poveraccio, evidentemente ne sapeva meno di lui.”.

Eppure in gioventù era completamente diverso rispetto a quello che si potrebbe immaginare avendolo conosciuto dopo il 1981 quando, per un solo voto, vinse il Campiello.

“Don Gesualdo è nato due volte; – scrive non a caso Antoio Capitano in Gesulado Bufalino: parole in costume d’epoca nel suo articolo per Treccani- la prima volta per la famiglia, la seconda per la letteratura e per la memoria. Come sarebbe stata la sua vita senza la sua preziosa scoperta? Probabilmente quella di un tranquillo professore stimato e riverito nella sua Comiso che avrebbe scritto per allungare i suoi giorni senza clamore in una sorta di eccellente anonimato pubblico.”. Dunque non una figura solitaria e introversa, ma uno sportivo a cui era impossibile parare un rigore “perché, insieme al pallone, arrivava una coda dragonara di sassi, polvere, fango, scatolame vario… potenza o imperizia? Mah…”, interessato alle donne e alla loro conquista.

A novembre verrà presentato Indice di film visti da Bufalino a cura di G. Traina, una riproduzione anastatica del quaderno conservato alla Fondazione in cui lo scrittore ha annotato i film visti dal 1934 al 1936. Questi film verranno proiettati tra agosto e settembre nelle meravigliose cornici del castello di Donnafugata (all’interno del Festival del cinema di Donnafugata) e della Pinacoteca di Comiso. Il 5 settembre la Fondazione renderà un omaggio musicale ed artistico allo scrittore con la performance del saxofonista di fama internazionale Francesco Cafiso e del pittore Giovanni Robustelli. La poesia del Maestro si unisce dunque alla musica che tanto amava, in modo particolare se era jazz per Bufalino “messaggio serafico sulle cicatrici dell’anima”.

Il 9 ottobre “A tutto volume”, il festival del libro e dell’editoria di Ragusa, aprirà la sua X edizione a Comiso, nel cortile della Fondazione con “In festa per Gesualdo”, la manifestazione a cui interverranno gli ospiti della rassegna per rendere omaggio allo scrittore premio Campiello e Strega.

A novembre, a ridosso della data di nascita dello scrittore, si terrà il Convegno internazionale di studi dell’opera complessiva di Bufalino, a cui interverranno studiosi di tutte le università italiane.

Il 15 novembre al Teatro Naselli di Comiso ci sarà, invece, un omaggio musicale con le musiche di Marco Raghezza, Giovanni Scapecchi e Joe Schittino e le poesie tratte da L’amaro miele.

A dicembre è prevista la ripubblicazione del libro Argo il cieco, illustrato da Giovanni La Cognata. Le tavole saranno esposte in una mostra.

Se non riuscirete ad essere a Comiso in questi periodi vi invito comunque, alla prima occasione, a fare un salto alla Fondazione Bufalino, dove troverete ad accogliervi Giovanni Iemulo, appassionato curatore dell’archivio e della biblioteca.

Un’anima sensibile, un gentiluomo di altri tempi, una figura schiva e solitaria che non amava le luci della ribalta, uno spirito stanziale che non lasciò mai la sua terra. È stato definito “ultimo lettore della biblioteca di Babele”, lui che vedeva la biblioteca come un impegno civile e un collegamento col mondo, per lui era “benefica violenza” la cultura. Considerò “le uniche due trincee da cui si possa combattere la degradazione del costume in Sicilia” le aule scolastiche e le sale di una biblioteca. E fra i 3000 libri autografi donati alla sua Comiso e consultabili nei locali della Fondazione, a pagina 181 de I fiori del male si legge un appunto su Baudelaire, vero e pungente, che molto svela di quell’uomo schivo: “poeta straniero sulla terra anelante al suo Eden, segnato da un sigillo di dolore. Non sono io forse?”.

Giuseppe Digiacomo accompagnò Bufalino alla premiazione del Campiello: lui in aereo con la moglie, lo scrittore in treno perché non gli piaceva volare ed era convinto che avrebbe riposato in cuccetta. A Venezia Digiacomo gli chiese se avesse dormito. La risposta fu: “Ore di sonno zero, libri letti quattro”. Eppure, nonostante la notorietà, volle “prendere le distanze dalle passioni della vita per disinnescare le conseguenze devastanti; come a volere indossare un giubbotto antiproiettile contro il destino cecchino, appostato col dito impaziente sul grilletto”. Al figlio del suo amico di vecchia data confessò infatti: “Fra centomila anni, in un’immaginaria Storia della letteratura Universale, probabilmente Dante occuperà lo spazio di poche righe, forse una pagina. Pensa io…” “E me lo disse senza amarezza” scrive un appassionato e intimo Digiacomo “L’untore non voleva essere unto dalla voglia di vivere, d’amare, d’essere famoso, celebrato, riconosciuto, ma si era rivelato un organismo permeabile, contagiato dal virus dell’irrazionale volontà di vivere – anche con gioia, soddisfazione e trasporto – tanto carsica quanto potente, irrefrenabile, esplosiva” “Perché il mondo era proprio come lo aveva descritto Dino, in alterco eterno con Dio, come una partita a scacchi disordinata, imprevedibile, nella quale nessuno vince, nessuno perde, perché vince il caos, il lì per lì, l’incidenza scomposta della malattia e della morte, il prezzo da pagare per estinguere un conto sempre sospeso col destino che non si riesce mai a saldare”.

Marta Galofaro

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